18/02/2022

Dal ludico all’onirico. Dalla poesia figurata alla pittura lirica: tentativi esplorativi dell’opera di Patrizia Di Ruscio – di Loredana Finicelli

By artedellamarca

Entrare in relazione con l’opera di Patrizia Di Ruscio significa calarsi in un mondo fantastico nel quale si è investiti da mille sollecitazioni simultanee, quasi ci si trovasse al centro di un caleidoscopio di luci, di stimoli in sequenza, di rimandi mnemonici, di connessioni inaspettate e anche di corrispondenze sotterranee. Le sensazioni che se ne traggono sono molteplici. Prima di tutto, di confusione caotica, una girandola di colori e motivi generati dall’artista con enorme e compiuta consapevolezza, un caos ordinato, anzi preordinato, perché strutturato pazientemente, pianificato con cura affinché la sensazione finale sia proprio di stordimento percettivo; in seconda istanza, si è investiti da una impressione di abbondanza, abbondanza di simboli, di oggetti, di frammenti, di suggerimenti, di indicazioni multiple, ma anche di associazioni misteriose, di allusioni non esplicitate.

In realtà, lo stordimento percettivo che lo spettatore prova di fronte alle opere di Patrizia Di Ruscio, opere, perché definirle quadro sarebbe riduttivo e dipinto improprio, è il frutto di genesi a lungo meditata, di un progetto di stratificazione nel quale ogni oggetto, simbolo, particella, trovi la sua esatta collocazione nella griglia cerebrale pensata dall’artista e offerta allo spettatore, affinché si impegni nello squadernamento interpretativo della sua sensazione originaria. Passo passo, infatti, immergendosi in questo pout-purri fatto insieme di smarrimento e sorpresa, l’osservatore pare acquisire i mezzi per procedere in questo itinerario affollato, in cui le suggestioni si sommano e il fantastico si intercala all’onirico, mentre si viene inondati, a flash intermittenti, di riferimenti culturali che spaziano dal repertorio dell’archetipo al catalogo dello psicanalitico.

È un tracciato, quello della Di Ruscio – artista marchigiana, allevata all’Accademia di Macerata e rinforzata alla scuola artistica di Giorgio Cegna, che tanto diede a questo territorio alcuni anni fa – un tracciato, dicevamo, a cui l’artista si attiene con una certa solida coerenza e nel quale si possono identificare i richiami al realismo fantastico, un po’ cupo e picaresco di secondo Ottocento, in bilico tra Lewis Carrol e Pinocchio, con rimandi a Peter Pan; vi si respira l’influenza dell’arcaismo mitico, mascherato in una trama fittissima di connessione surrealista e atmosfera metafisica.

Su questo percorso complesso e ricchissimo e per nulla banale, Patrizia di Ruscio ha costruito i suoi multipli, un concept organizzato e ricorrente, in grado di dar vita alle sue installazioni figurate, che, di volta in volta, cambiano immagine senza mutare di struttura e mantengono intatte le armonie e le disarmonie di fondo, tanto che ogni opera è legata all’altra e poi ancora alla successiva in un crescendo di sensazioni estetiche dalle quali scaturisce un mondo intero: immaginifico, colorato, sorprendente e in ultima istanza, incantevole senza essere ingenuo.

Un mondo, dove la magia risuona con clamore, a tratti inquieta a tratti distesa, quella magia dei nostri racconti di infanzia, intimisti, fantasiosi, ma anche pieni di moniti, allusivi di chissà quali minacce che si nascondono nelle pieghe dell’imponderabile; mondi fatti di corrispondenze, esplorabili dall’intuizione, magici, ma non allucinati (più Alice e meno Pinocchio) fantastici, ma non epici (più Peter Pan e per nulla il Signore degli anelli), al limite poetici, per quanto di una poesia alterata. Un mondo comunque sul quale soffermarsi punto dopo punto, sul quale meditare con concentrazione, una scacchiera sulla quale trovare la propria posizione – come invita la curatrice – e lasciarsi catturare dal gioco, offrirsi alla fascinazione, farsi coinvolgere dagli intrecci, assaporare le trasformazioni, navigare gli insoliti circuiti, gli strani rimandi, ben sapendo che ogni viaggio – di cui la vita è davvero quello più temerario e stupefacente – è un rischio, può nascondere insidie ma anche esperienze memorabili. E proprio la scacchiera è il vero leitmotiv di tutti i lavori, una scacchiera dai colori alterati, dove il rosso, pericolosamente prossimo al rubedo alchemico, spodesta il nero-nigredo a testimonianza di un processo di consapevolezza e appropriazione, di riconoscimento che se non compiuto si è certamente avviato. Certo, è una scacchiera in costante ripensamento di sé, ora poggiata a terra, ora volante, talvolta sospesa o distorta otticamente, vista dal basso, vista dall’alto, in molte configurazioni possibili. Che sia protagonista della visione o semplice comprimaria del dipinto, in realtà ne detta la struttura: come se si identificasse con il sé dell’artista, è l’oggetto di partenza intorno al quale si articolano elementi disparati, partoriti da una fantasia simbolica e colta, da una esperienza stratificata e vorace, che mette a confronto e sullo stesso piano di autenticità una tradizione storica e artistica, onirica e allegorica.

Patrizia Di Ruscio è stata tra le protagoniste della scorsa estate fermana con una mostra molto visitata e apprezzata negli spazi del Palazzo dei Priori, Correlativo Oggettivo, curata dalla storica dell’arte e docente di lungo corso del prestigioso liceo artistico Preziotti di Fermo e noto critico d’arte, Simonetta Simonetti, e presentata dal giovane e promettente critico, anch’esso in forza al liceo artistico, Marino Capretti. Una mostra che è stata riproposta, all’apertura del nuovo anno, a Porto san Giorgio, riscuotendo immutato successo.

Una esposizione corredata di catalogo e a cui, oltre alla Simonetti e Capretti, diversi critici e appassionati hanno dedicato scritti e recensioni, a testimonianza dell’apprezzamento ricevuto, del fatto che la proposta artistica abbia toccato corde tali da sottolineare con un pensiero o un testo, il proprio coinvolgimento. Non conoscevo, se non accidentalmente, il lavoro di Patrizia Di Ruscio e vederlo esposto in quelle occasioni, sapientemente allestito in spazi che sarebbero capaci di sottrarre qualità estetica anche al migliore artista su piazza, mi ha davvero incuriosito, per i temi trattati, per i materiali impiegati, per la complessità di un lavoro molto ben costruito e allo stesso tempo ben dissimulato in una semplicità apparente e in una allegria cromatica, in cui, come in un puzzle coloratissimo, l’artista ha manipolato frammenti di carta, ha disseminato trompe l’oeil, ha proposto cioè una visione fantasmagorica dove realtà e illusione si scambiano in un gioco di continuo rimando e sotto il quale sono celati significati tutt’altro che scontati. Un’opera dove l’oggetto rappresentato, anche il meno appariscente e più banale, rivela una dedizione artistica curatissima nel definirne natura e posizione strategica.

Amalasunta, tecnica mista su tela, 50×50 (dettaglio)

Ho rintracciato Patrizia Di Ruscio e ne è nata questa chiacchierata molto interessante, che mi fa molto piacere condividere con chi i lettori di questo blog.

Una piccola presentazione. Patrizia Di Ruscio è fermana, diplomata al Liceo artistico di Porto san Giorgio e poi all’Accademia di Belle Arti di Macerata, negli anni ruggenti della direzione di Giorgio Cegna. Dopo la laurea, si è dedicata a molti aspetti dell’attività artistica, lavorando per il teatro, curando scenografie e costumi, dedicandosi alla decorazione e al restauro, coltivando cioè un approccio totale alle arti visive e alle sue applicazioni che non è mai venuto meno. Una formazione in progress, sperimentale ed eterogenea, che traspare nella abilità con cui vengono trattati e allestiti nei suoi quadri materiali diversi, con un evidente dominio delle loro qualità tecniche e con assoluta consapevolezza della loro spendibilità nel contesto teorico dell’opera.

L.F.: Patrizia raccontaci della tua formazione e del tuo percorso così ricco di esperienze e di quella straordinaria stagione che furono le Marche degli anni settanta.

P.DR.: Mi sono diplomata al Liceo artistico di Porto San Giorgio che, appena istituito, è stato un luogo fondamentale per la mia crescita, sia umana sia artistica, a contatto con insegnanti giovanissimi, motivati, che mi hanno trasmesso l’entusiasmo del fare, l’amore per la ricerca, rapporti solidissimi, tanto che ancora oggi, con alcuni di loro, mantengo i contatti. Finito il Liceo, ho proseguito la mia formazione in quel contesto stimolante che era la Macerata degli anni settanta, dove frequentavo l’Accademia di Belle Arti e dove mi sono laureata, discutendo la tesi su Antoni Gaudì, con il professor Armando Ginesi, personalità di spicco nel circuito accademico di quegli anni. Contemporaneamente, ho frequentato, per un lungo periodo, anche il Centro Internazionale per le Arti di Maestà di Urbisaglia creato da Giorgio Cegna, docente dell’Accademia. Una piccola città nei cui laboratori si editavano cataloghi; si producevano e stampavano libri d’arte, la cui circolazione avveniva a livello europeo; si realizzavano incisioni, erano laboratori in cui si sperimentava una vera occasione formativa. Ma si trattava anche di luoghi di scambio, in cui era possibile incontrare molte persone, da quelle dell’ambiente, a curiosi e appassionati. Credo che in quegli anni, gran parte degli artisti nazionali ed esteri sia passato in quelle stanze: mi ricordo Corneille, Remo Brindisi, che nel centro, aveva un appartamento, ma non vi erano solo pittori, vi si trovavano fotografi, Irina Ionesco, il romano Roberto Ruberti, incisori, critici, personalità attive nel mondo dell’arte.

Con due amiche trascorrevamo, nei laboratori di Maestà, quasi tutti i pomeriggi liberi: poteva succedere che si scattassero delle fotografie e immediatamente venissero elaborate per produrre un catalogo, un prodotto piccolo, ma di alta qualità, realizzato con macchine e strumenti di avanguardia. Inutile sottolineare come per noi, giovani studentesse, vivere in quell’ambiente a contatto con tutta quella vivacità e quella creatività febbrile, fosse un’esperienza entusiasmante

L.F.: Osservando il tuo lavoro, anche quello odierno, credo che questa esperienza avvenuta in anni così formativi abbia finito per incidere sulla tua personalità artistica, così versatile, e che caratterizza la tua ricerca in maniera veramente multidisciplinare.

Come è proseguita la tua carriera dopo il diploma?

P.DR.: inizialmente avevo intrapreso la strada dell’insegnamento, ma, in quegli anni, era un percorso lungo e davvero disagevole, e, forse, quella centralità del ruolo educativo, che la scuola richiede, sentivo che non mi appartenesse, anzi, a tratti sembrava sovrastarmi, quasi fosse un compito che andasse al di là delle mie reali possibilità. Così, alla fine abbandonai questa opzione professionale e cominciai a dedicarmi al restauro, grazie a una vecchia amica restauratrice che ritrovai in un corso di teatro e con la quale cominciai a collaborare, una collaborazione che va avanti ancora oggi.

Prevalentemente, mi occupo di restauro pittorico, anche strutturale; soprattutto pulitura delle superfici, ma questa è una solo una parte della mia attività, in quanto un ruolo non marginale è riservato al teatro, non come attrice, ovviamente, ma come scenografa e soprattutto costumista. Ho collaborato con la sartoria del teatro di Jesi per numerose stagioni liriche; per diversi anni con la Camera Chiara di Fermo sotto la direzione di Luigi Maria Musati, allora direttore dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico: sono figlia di una sarta e sono cresciuta a contatto con mia madre che da ragazza aveva prodotto abiti di sartoria di alta qualità, tra cui abiti da sera ed evidentemente ho ereditato questa passione e questa inclinazione; a casa c’era l’abitudine di assistere alle sfilate, probabilmente è da lì che ho ripreso questa attitudine all’allestimento del costume di scena.

Il Re è colui che lo si crede tecnica mista su tela 90×60

L.F.: non nascondo che venire a conoscenza di questa tua attività per il teatro, come scenografa e costumista, mi svela alcuni aspetti del tuo lavoro pittorico, primo fra tutti, la tua straordinaria capacità di “mettere in scena” tanti elementi eterogenei e farli dialogare, senza che venga meno l’unità complessiva del dipinto.

  1. DR: si, credo che nell’opera si rifletta la mia concezione spaziale scenografica, il mio mettere in scena, appunto, il mio disporre tanti elementi a partire da una visione dello spazio che è comunque unitaria e dominata da una prospettiva centrale intorno alla quale si articola il tutto. Non a caso, utilizzo la scacchiera, che sebbene sia un oggetto dalla valenza metaforica e tema ricorrente e strutturante di questo ciclo di opere, agisce anche come piano di superficie, un palcoscenico pittorico, ma anche uno schema compositivo che funziona da legante nei confronti dei tanti elementi presenti sulla scena.

L.F.: hai chiamato in causa la scacchiera, che è il motivo ricorrente di queste opere, lavori che si caratterizzano per una atmosfera fantastica, a tratti magica, ma un magico dalla declinazione intimista, non epica, il mondo incantato e anche un po’ inquieto e allusivo. Vuoi spiegarci queste suggestioni?

P.DR.: si, la letteratura per ragazzi, da Alice nel paese delle meraviglie a Peter Pan, racconti che affrontano il tema della crescita, della trasformazione, il processo di maturazione attraverso l’esperienza, è sicuramente uno dei miei spunti di riflessione teorica, una tra le basi intellettuali del mio lavoro.

La trasformazione è infatti un tema portante: nei miei dipinti tutto è sottoposto a trasformazione; ogni oggetto è degno di evolvere in qualcosa di diverso, che sia la mano dell’artista o l’esperienza percettiva dell’osservatore tutto è metamorfosi: ecco allora che una tazza di tè, per via delle sue affinità formali può trasformarsi in coppa e diventare testimone dell’incessante processo di modificazione in atto, un cambiamento che coinvolge il suo aspetto esteriore e di conseguenza il suo significato. È il processo di trasformazione quello che il tempo, presente nei miei lavori sottoforma di orologi, clessidre, di giorno e notte, chiama in causa, il tempo come variazione. I miei lavori, i miei personaggi vivono in una ambientazione fantastica, si muovono su una scacchiera allegorica e sperimentano una dimensione atemporale dove il tempo cessa di essere connotato in termini di giudizio (buono o cattivo, speso bene, speso male); è un tempo che è, vive in un eterno presente in cui è sempre l’ora del tè, non a caso, sono molti i riferimenti a quello che, di fatto, è un vero e proprio rituale che cade in una precisa ora della giornata.

L.F.: Osservare un tuo quadro, per quanto il termine non conferisca giustizia, significa impelagarsi in una selva di figurette, ominidi, pesci, uccelli, chiavi, scacchi, alberi, immagini eterogenee dove ognuna di queste ha un valore simbolico, esplicito o intuito, e dove la terra di appartenenza, le Marche, magiche la loro parte, risuonano.

P.DR: Fermo e la storia, con le sue architetture sospese, con quel medioevo che già era promessa di progresso, con i suoi cancelli in ferro battuto (ma si chiudono o si aprono?), con il suo il paesaggio marchigiano, è sempre parte delle mie creazioni, è parte di me; ci sono cresciuta, vissuta, ancora, prima di andare a dormire sono solita contemplare le colline, il cielo, la luna che, come l’acqua, è elemento ricorrenti della mia poetica. La luna, la cui forza di attrazione muove le maree, l’acqua, da cui tutto si genera e a cui tutto torna, gli alberi, colorati, pieni di foglie, talvolta spelacchiati, tutto è metafora della vita e del suo scorrere incessante; il fenicottero, che vive nell’acqua, poggia a terra, ma ha la capacità di volare; i pesci, nella duplice versione di pesci acquatici e cosmici, che nuotano nell’infinito, sono esseri multidimensionali, fantasiosi. E, metafora nella metafora, vi è la barchetta realizzata con la cartina stradale, con la mappa cartacea ritagliata e incollata, affinché la strada da percorrere, per quanto accidentata, non si smarrisca.

L’arte di Patrizia Di Ruscio è un tuffo in un universo simbolico e coloratissimo, apparentemente infantile e sorprendentemente complesso nei suoi continui giochi di dissimulazione, finzione e alterità, un non-luogo dove i confini saltano, i territori si sovrappongono e l’osservatore stupefatto, e arrendevole, si perde.

Amalasunta, tecnica mista su tela, (dettaglio)

Amalasunta, tecnica mista, 50×50 (dettaglio)

Buona vita (dettaglio)

 

Chi gioca cosa, tecnica mista su tela, 50×50

Tutti nella scatola, tecnica mista su tela, 49.5×60,

 

Tra cielo e Terra, tecnica mista su tela, 30×45