Dialogo con

La materia industriale di Mara Brera tra eleganza e trascendenza – di Loredana Finicelli

Il talento artistico si esplica in tanti modi; ha tante manifestazioni e può arrivare a toccare ambiti insoliti del nostro quotidiano, se, chi lo possiede, sa piegarlo e manipolarlo, farlo interagire con la vita viva, la vita vera. Mara Brera è una di quegli artisti dove il talento coincide con la vita, perché il talento, Mara, lo calpesta, lo calcia, lo spatola e lo combina, fino a trasfonderlo in ogni atto della sua giornata, in ogni incontro del suo vissuto. E se per Mara Brera, il talento coincide con la vita, la vita finisce per coincidere con un’umanità piena, quella umanità solida, tipica della gente semplice ma tosta, quell’umanità che ti aspetti di trovare nei benefattori e invece, spesso, la incontri negli artisti, nei pittori, negli scultori, anche nei performer, sofisticati emarginati della nostra epoca inquieta. In fondo, pure loro sono un po’ benefattori. Ma non è un caso. Perché esercitare l’umanità è come operare con il talento: ci vuole la forza, il vigore e la convinzione; ci vuole la follia dei poeti e l’irrazionalità dei maghi, ci vuole, appunto, l’umanità profonda dei creativi e lo slancio vitale dei visionari. È da questo talento combinatorio agito tout court che nasce l’opera artistica di Mara Brera, il cui cammino ha incrociato il mio qualche tempo fa e subito ne ho riconosciuto i caratteri. I caratteri imprescindibili di chi d’arte vive e d’arte stenta e probabilmente di arte si alimenta quotidianamente. Volitiva, diretta, ruvida, generosa e irrefrenabilmente lirica: questa, per me, è Mara Brera.

Nata a Liegi e cresciuta a Fabriano, diplomata all’Istituto d’arte di Gubbio e poi all’Accademia di Perugia, Mara Brera è pittrice, scultrice, scenografa, ceramista, tutte definizioni che non sono sufficienti a descrivere la sua carica creativa, che fa di lei un artista professionista capace di operare in tutti gli ambiti e con tutti i materiali disponibili. Un’artista a tutto tondo, con un ricco curriculum alle spalle ed esposizioni significative in vari luoghi, una storia già avviata e tanti contributi differenti che fanno di questa scultrice una delle personalità più interessanti del nostro territorio, un talento più che emergente da seguire attentamente per la qualità della sua proposta. Attualmente, è presente a Roma con la mostra a mia cura Percorsi. Dalla Terra al cielo, per lo Studio Arte Fuori Centro, galleria dal limpido profilo critico e, da circa un ventennio, realtà consolidata nell’affollato circuito espositivo romano. Ho colto l’occasione dell’inaugurazione del ciclo Scultura in action. Materia in progress. In/torno alla scultura, di cui la mostra della Brera costituisce il primo appuntamento, per fare quattro chiacchiere con l’artista.

L.F.: Mara Brera e i suoi Percorsi. Dalla Terra al cielo, una bella affermazione di pubblico e di critica su un palcoscenico ricchissimo di proposte come quello romano.

 M.B.: Sì, un bel riscontro, una grande energia e la possibilità di esporre in una galleria di qualità, perfettamente condotta da un’abile professionista e artista di lungo corso come Teresa Polidori con cui ci siamo interfacciate, ritengo con soddisfazione reciproca, nel corso di questa avventura espositiva.

Quello dei “Percorsi” è un tema su cui rifletto da diverso tempo; alludo ovviamente ai “percorsi” da intendersi come le molteplici possibilità metaforiche che questi lavori offrono, i tanti piani di significato a cui si prestano: sono le scelte della nostra vita, i desideri a cui aspiriamo, le molteplici identità che assumiamo anche solo nel corso di una giornata; ancora, “percorsi” sono i tanti punti di vista, nostri e degli altri osservatori, sono le molteplici sfaccettature dell’esistenza – e dell’esistere – che trovano la loro cristallizzazione in queste lastre di acciaio. Lastre che, ovviamente, riflettono l’eterogeneità dei percorsi stessi e il loro differente accadere, motivo per cui, a volte sono distese, altre più segmentate, in qualche caso addirittura contorte. Su tutto domina il gesto dello scultore, dolce e vigoroso che plasma la materia e nell’atto del modellarla tenta di imprimerla di sé, della linfa e del carattere che attiene alla sua persona.

Sono lastre il cui andamento formale rimanda a una molteplicità di significati; se prendiamo il concetto di identità, uno di quelli a cui le lastre rimandano, appare evidente che le identità sono mutevoli per definizione: cambiano al cambiare del punto di vista e dell’osservatore, ma mutano al mutare del contesto; chi guarda non è un attore passivo, ma carica di sé ciò che osserva. Questa mobilità di percezioni e significati è interpretata dalla luce che scivola sulle superfici ariose, si increspa sulle graffiature, si inerpica lungo i dossi in un gioco scenico di rimandi e di suggestioni. E quale che sia il significato o il cammino che si intraprende, proprio per questo continuo gioco di riflessi e riverberi esso si traduce in un percorso verso il trascendente dove il risultato alla fine è la raggiunta pienezza spirituale che attraversa i vari passaggi di stato, ma anche le illusioni, le false visioni, i miraggi, le alterazioni di senso in un abbandono progressivo della natura e della materia. Al di là del singolo pezzo, infatti, l’intera installazione Percorsi allestita in galleria è la summa dei vari lavori: sia apre con un guerriero che per professione e statuto è saldamente legato alla materia, al sangue, alla terra cruda e si conclude con un’ara e un altare dove si compie il passo ultimo e benaugurante della elevazione spirituale: un percorso duro, sofferto, tormentato ma infine vittorioso.

L.F. Questa in sintesi, i “Percorsi”, un concentrato di eleganza ed essenzialità che poi sono un po’ la cifra stilistica di Mara Brera. Donna e scultura, sembra quasi un ossimoro, perché in fondo, siamo abituati a declinare quest’arte al maschile. Eppure, sebbene le protagoniste siano state rare, anche la scultura ha avuto le sue eccellenze femminili, basti un nome su tutte, quello di Camille Claudel.

Com’è maturato il rapporto di Mara Brera con la scultura, perché la scelta di questa tecnica espressiva?

 M.B.: La mia esperienza con la materia è stata naturale, un gesto del tutto appartenente al mio essere donna. Da bambina mi sono subito accorta che la mia natura corporea non era stata formata per azioni delicate o eteree; le mie ossa forti, le mani grandi, la potenza muscolare, tutto in me era dedicato ad azioni in cui la sensualità e la femminilità dovevano convergere in gesti diversi da quelli dedicati al resto delle mie compagne; una femminilità originale dove il vigore si accompagnava alla morbidezza. Non è stato facile trovare un equilibrio in tutto questo; la mia naturale predisposizione all’arte mi ha aiutato a capire il ruolo a cui ero stata destinata. La scelta della ceramica prima e della scultura in Accademia poi, mi hanno permesso di  trovare l’equilibrio tra la mia parte femminile e la potenza intrinseca contenuta nel mio corpo. Tanto che ora i gesti, con cui domino la materia, solo apparentemente rudi o violenti, sono in realtà ciò che di più delicato io mi conceda. Il lavoro scultoreo, le lastre, i sassi, nascono quasi spontaneamente da questo perfetto gioco di equilibrio, nel punto esatto in cui la cui forza incontra la delicatezza e insieme agiscono nell’azione modellante.

L.F.: Nata a Liegi da madre marchigiana e padre lombardo e poi tornata nel paese materno, Fabriano, la città dove, attualmente, Mara Brera vive e lavora. Un rapporto costante con la sua terra, che ha dato i natali a grandissimi artisti e scultori (si veda il saggio dedicato a Edgardo Mannucci su questo blog) e che l’artista racconta attraverso un lavoro costante su materiali locali, locali e spesso basici, elementari. Perché questa scelta?

M.B. : Al di là di quello che posso lasciare intendere con il mio carattere e la mia indipendenza, sono una persona molto semplice. Amo la vita in tutte le sue forme e mi emoziono facilmente, sono assolutamente attratta dalla terra, dalla natura e mi lascio coinvolgere dai luoghi in cui vivo. Ho passato molto tempo nella pianura padana, il mio nome appartiene al ceppo lombardo dei Brera; ho vissuto a lungo in Umbria e in Liguria, terra che adoro. Le Marche sono la regione dove è nata mia madre e dove sono tornata. Amo questa terra; ogni giorno l’attraverso mangiando chilometri in piccole e tortuose strade provinciali, e i paesaggi di questa splendida regione riescono sempre ad emozionarmi. Non saprei lavorare con materiali provenienti da altri luogo, che non assaporo e non riconosco, che non sento appartenermi. La scelta di usare ciò che la mia terra produce è una necessità ma anche una scelta di campo, è come scrivere attraverso il gesto artistico le sensazioni quotidiane che mi appartengono, che fanno parte di me. Poi, l’operazione modellante e creativa su materiali poveri, naturali, implica una operazione spiritualizzante, una elevazione che passa attraverso l’intervento e l’essenza dell’artista.

L.F.: L’acciaio è uno dei materiali preferito da Mara Brera, un materiale dove il gesto dell’artista domina sulla materia. In che misura e maniera il gesto dell’artista è connesso con lo spirituale e il trascendente a cui fanno riferimento alcuni tra i tuoi lavori più significativi come in “Percorsi”?

M.B.: Fabriano è una terra dalla naturale vocazione industriale. È la terra degli elettrodomestici e delle cappe aspiranti. I colossi industriali che qui hanno visto la lavorazione dell’acciaio come materiale unico e insostituibile mi hanno in qualche modo suggestionato e sfidato.

Le prime esperienze sono nate quasi per scherzo, forse volevo dimostrare che quel materiale considerato freddo e applicabile solo a un uso tecnico potesse esprimere una poesia e un linguaggio alternativo. Poi, successivamente, la grande delicatezza e soprattutto la sua naturale luminosità mi hanno talmente affascinato da non potermene più distaccare. Amo dominare con gesti cosi delicati quello che per molti è considerato inamovibile. Ci tengo a raccontare che tutte le forme che plasmo sono fatte con il solo uso delle mie mani e di semplici strumenti che io stessa ho creato.

L.F.: Mara Brera è anche l’artefice di un metodo di rigenerazione cognitiva che hai messo a punto attraverso dei laboratori in cui utilizzi l’espressività artistica a fini terapeutici. Potresti spiegarci qualcosa di questo metodo che apre tante possibilità terapeutiche e prospettive professionali?

M.B.: Credo che gli artisti in genere siano persone il cui talento è necessariamente implicito e indirizzato ad un dovere sociale. La mia esperienza con le persone fragili risale a tantissimi anni fa. Ero ancora studentessa alle superiori quando fui chiamata per un progetto artistico dedicato a ragazzi disabili. Non è stato difficile capire che avevo un canale comunicativo preferenziale con le persone affette da disturbi cognitivi. Nel corso del tempo, con la realizzazione di tanti progetti artistici svolti in strutture di assistenza, le competenze artistiche unite alla passione per la psicologia mi hanno indirizzato a uno studio più approfondito delle difficoltà cognitive tipiche delle persone affette da disabilità.

Lo stimolo a creare un metodo di riabilitazione cognitiva mi è venuto dal grande desiderio di poter aiutare tutti i miei amici nel proprio superamento dei limiti e, soprattutto, nella condivisione di momenti felici, in cui il gesto artistico oltre a stimolare crea un livello altissimo di benessere e appagamento attraverso il quale ogni persona sente di realizzarsi e di fare parte di un gruppo, non più esclusa dalla disabilità ma anzi unica proprio perché diversa.

Questo lavoro è un regalo che la vita mi ha fatto. Non c’è nulla di più gratificante e appagante che condividere la mia passione con l’arte attraverso queste persone che diventano parte di me, della mia quotidianità. In certi ambienti la vita è talmente tangibile e semplice e felice che mi sento davvero fortunata ad avere avuto questa intuizione, e spero, in futuro di avere la possibilità di condividere e insegnare soprattutto ai giovani il mio meraviglioso lavoro.

Dalla sua esperienza quotidiana con le varie disabilità è nata la pubblicazione a sua firma Mi prendo cura di te un primo strumento orientativo per affrontare con efficacia e senza timore la demenza senile patologia in rapido aumento a causa dell’invecchiamento della popolazione.

Scultura, pittura, tecniche progettuali e arte terapia sono in Mara Brera sfaccettature di una personalità unitaria e di una singola ricerca che ha come punto di partenza – e di ritorno – l’uomo, la sua natura mutevole, la sua verità esistenziale.

 


CHI L’HA VISTA? Storia di un viaggio trattista da Berlino a Ripe di San Genesio – di Marianna Neri

Marco Fioramanti  (Roma, 11 febbraio 1954), è un artista totale che abbraccia più discipline dalla pittura alla performance all’installazione. La sua ricerca si muove in un continuum multidirezionale e attraversa come per osmosi mezzi e supporti espressivi diversi, partendo però da una matrice che vede nel “tratto” l’apice di un atto creativo che è recupero costante ed indeterminato del primigenio. Co-redattore del Manifesto Trattista, nel gennaio 1982, dà vita al Movimento omonimo, Il Trattismo, insieme ad un gruppo di artisti che, abbandonando il proprio percorso di ricerca basato sulla non figurazione, si concentrano sull’uso del “tratto” quale gesto semplice e originario, riconoscibile da tutti perché in grado di evocare una dimensione archetipa “riconosciuta” avulsa da qualsiasi speculazione metafisica o concettuale. L’obiettivo del gruppo è disancorarsi dalle biglie della cultura ufficiale ed evocare le tracce lontane di quelle culture primitive extra-europee, che la cultura occidentale ha disperso nei secoli.  Così, prendendo spunto dal loro interiore, i Trattisti condividono il processo di nascita, elaborazione e compimento dell’opera, sia essa identificabile con una pittura o un happening- aperto a tutti coloro che ne vogliono prendere parte come spettatori o esecutori –  in una sorta di processo in divenire i cui luoghi d’elezione sono le piazze e i centri urbani della città, patrimonio, questi ultimi, di una collettività chiamata ritenuta tassello fondante del loro fare artistico. Operanti in quel clima di generale apertura alle sperimentazioni artistiche, com’era l’ambiente romano degli anni ottanta,

Marco Fioramanti

dominato dalla figura di Renato Nicolini, allora assessore alla cultura, sulla scia del nascente Primitivismo astratto, i Trattisti intervengono sulle strade, sui ponti e sulle piazze di Roma dipingendo e realizzando veri e propri happening dal vivo eliminando quella distanza tra arte e pubblico di cui si ritiene responsabile la critica, considerata uno strumento condizionante.  Nel 1983, Fioramanti si trasferisce a Berlino, metropoli occidentale e palcoscenico in quegli anni di un nutrito gruppo di artisti impegnati a liberare la propria arte attraverso i canali interdisciplinari della pittura, degli happening, della musica e della poesia.

E’ in questo fervido contesto culturale, segnato dalla presenza del “Muro”, simbolo di opposizione alla libera compenetrazione tra le culture dei popoli, che quella necessità di abbattere gli argini tra l’operato dell’artista e una fruizione allargata, diventa un’urgenza: Fioramanti inizia a dipingere tele di grandi dimensioni usate per coprire la visuale del Muro e mezzi in movimento come biciclette e macchine,  metafora queste ultime, di quel “viaggio” oltre il tempo e la memoria che riporta all’essenziale e al primigenio. Una delle opere più rappresentative di questo periodo, che ripercorre quella necessità di eliminare qualsiasi limite alla libera interazione tra le culture dei popoli, è la grande tela trattista concepita per essere posizionata lungo le colonne esterne della Porta di Brandeburgo – storico simbolo della suddivisione tra Ovest ed Est – in modo da chiudere la visuale del Muro simulandone così l’abbattimento e il potenziale passaggio tra le due parti della città. Così nella Berlino degli Anni Ottanta, in un clima di generale riappropriazione dell’arte degli spazi di vita quotidiana, Marco Fioramanti condivide le sue azioni con gruppi di artisti operanti in spazi alternativi  e sempre estranei ai contesti artistici istituzionali. I luoghi di ritrovo di queste aggregazioni sono il noto ristorante “Parisbar” che funge non solo da punto di incontro ma anche da vero e proprio spazio espositivo, Lo Schwarzes Café, il Café Swing e l’Etage, teatro di happening ed eventi culturali interdisciplinari aperti anche ad un pubblico non specializzato. Nel settembre del 1983 dipinge una Volkswagen “trattista” nel cortile del teatro  Freie Volksbühne con la quale inizia a girare per la città. Due anni più tardi il regista della RAI di Milano, Dante Maiorana, giunto a Berlino Ovest, propone di realizzare un lungometraggio sulla storia di questa macchina che non poteva uscire dalla città se non incontrando le frontiere francesi, inglesi e americane o lo stesso Muro.

Opera di Fioramanti

Da lì nacque l’idea di dipingere quaranta metri di Muro con gli stessi motivi pittorici utilizzati per dipingere la Volkswagen e di simularne l’abbattimento posizionando quest’ultima di fronte alla porzione di muro, quasi a volerlo frantumare investendolo della sua stessa energia segnica. Nell’aprile del 1985 l’intervento fu ripreso per la RAI e due anni più tardi la macchina venne portata in Italia nella zona del maceratese, a Ripe San Ginesio,   perché destinata a un museo allora in costruzione. Dopo la caduta del Muro, della macchina non si ebbero più notizie finché, grazie all’interessamento di alcuni amici di Fioramanti, desiderosi di conoscere il destino della Volkswagen, non si venne a sapere che la macchina “trattista” era stata esposta per quindici anni sulla piazza principale di Ripe San Ginesio davanti alla Torre, diventando in questo modo una sorta di monumento storico condiviso dalla collettività locale ma in seguito perso di vista. L’idea, oggi, di ripercorrere il “viaggio” della Volks-trattista e di conoscerne la sua definitiva destinazione attraverso un appello pubblico nasce dal desiderio di organizzare e archiviare l’intero operato di Marco Fioramanti, ma risponde anche a quella urgenza collettiva di riappropri/azione delle tracce “riconosciute” che appartengono alle nostre radici, le sole in grado di dare storia e dunque pregnanza a un quotidiano che ha perso il suo contatto con il Mito. L’appello è quindi rivolto a tutti coloro che siano entrati in contatto visivo con la Volkswagen e ne abbiano conosciuto le alterne vicende nel corso degli ultimi anni. Ogni testimonianza, anche sotto forma di aneddoto o resoconto degli ultimi “avvistamenti” verrà accolta come un prezioso contributo utile alla ricostruzione di questo “viaggio” che ha visto le Marche come luogo depositario di una memoria che oggi chiede di essere perpetrata.  In occasione degli incontri tenutisi con l’artista per la ricostruzione del suo archivio, abbiamo realizzato un’intervista per approfondire alcuni aspetti della sua lunga ricerca e raccogliere una testimonianza diretta del suo legame indissolubile con le Marche.

Marco Fioramanti, qual è stato, nel contesto sociale e culturale della Roma di quei primi anni Ottanta,  l’impulso, il motivo fondante che ha portato un gruppo di giovani artisti provenienti da esperienze pregresse così diversificate – penso a Claudio Bianchi e alla sua adesione all’astrattismo formale in opposizione allo spirituale della pittura di Kandinskij, a te, giovane laureato in Ingegneria –  a riunirsi e per dare vita al Movimento Trattista?

Alla fine degli anni Settanta il contatto e il confronto tra gli artisti e la loro volontà di operare in gruppo,   ancor prima che il Trattismo si sviluppasse e si imponesse come movimento artistico, era alla base dell’agire quotidiano. Bianchi lavorava in Acea, così come altri pittori che poi hanno operato nel gruppo, per cui fu facile trovare un terreno comune, soprattutto logistico. Iniziammo a incontrarci e a valutare la possibilità di formare un gruppo. L’azione artistica doveva nascere da uno spirito di collaborazione tra le persone e comportava anche quella coerenza con la propria disciplina di vita senza la quale era inconcepibile poter produrre un qualsiasi elaborato artistico. Questo fondamento di stampo comportamentale prima ancora che poetico, per me, giovane ingegnere, molto aperto al settore

artistico pur non provenendo da un’educazione di stampo accademico, fu la molla che mi spinse a intraprendere questa strada. Così all’inizio degli anni Ottanta, nel periodo immediatamente precedente alle prime esperienze pubbliche del gruppo, utilizzammo il “tratto” come elemento comune e, con l’aiuto dell’allora assessore alla cultura del Comune di Roma, Renato Nicolini,  iniziammo a dipingere negli spazi aperti al pubblico del salone di Villa Flora, sulla Portuense, dove fu possibile stabilire un primo contatto diretto con le persone di passaggio che assistevano alla presenza della nascita delle opere.

Dopo questa prima esperienza maturata al chiuso di uno spazio, seppur condivisa con il pubblico, il gruppo uscì all’esterno…

La prima uscita in assoluto fu quella di Piazza di Spagna nel giugno del 1983. L’Acea ci aiutò illuminando a giorno tutta la Piazza e mise a disposizione delle strutture metalliche con le quali fu delimitata l’intera zona che va dalla scalinata a Via del Babuino dando vita ad una sorta di galleria a cielo aperto. Poi, dieci giorni dopo, stendemmo grandi tele a Piazza Navona interagendo anche con altri artisti in un clima di generale collaborazione che favorì l’interessamento della stampa con la quale, a quel tempo, si poteva stabilire un contatto diretto potendo frequentare liberamente le redazioni dei giornali.

A ridosso di queste due prime esperienze romane che ti hanno visto coinvolto in azioni a stretto contatto con il pubblico si colloca la tua partenza per Berlino ovest che segnerà una svolta fondamentale per quanto concerne il tuo personale percorso all’interno del Movimento Trattista.

Io e un videoartista, Marco Luci, chiedemmo un incontro con Renato Nicolini che ci scrisse una lettera ufficiale come Assessorato alla Cultura per il Comune di Roma, lettera con la quale avremmo dovuto presentarci al suo omologo berlinese. Partimmo quindi con una Renault 6 bianca e con un rotolo di tele, facemmo una prima tappa a Monaco per poi arrivare a Berlino ovest dove alcuni giorni dopo ci ricevette il console generale d’Italia, Riccardo Leonini, al quale illustrammo la nascente situazione artistica della quale eravamo in quel momento testimoni. Una persona fondamentale che aprì la strada allo sviluppo del Trattismo a Berlino ovest fu l’architetto Alessandro Carlini, membro della Camera degli Architetti di Berlino, nonché collaboratore di alcuni tra i più importanti studi di architettura della città come il Deutscher Werkbund. Grazie al suo intervento fu possibile organizzare la prima manifestazione al Teatro Freie Volksbühne Berlin, che permise anche agli altri componenti del gruppo di raggiungerci. Si formò quindi un gruppo di artisti italiani, al quale si aggregarono artisti berlinesi come la coreografa e danzatrice tedesca Christiane Kluth. Da questa aggregazione nacque il “Gruppo Multimediale Trattista Berlin” con David Thompson, inglese, al violino e pianoforte e Julie o’Grady, americana, attrice e voce recitante, nucleo che successivamente ebbe un riscontro, sempre su invito, anche fuori dalla Germania: al Fringe Festival di Edimburgo, al Theaterfestival di Monaco di Baviera, alla I Biennale internazionale di Algeri e all’istituto Italiano di cultura di Stoccolma. Avevo inoltre trasformato la mia casa/atelier berlinese situata in pieno centro, nel quartiere di Schöneberg, a spazio espositivo e luogo d’incontro tra addetti ai lavori.

M.N. Come fu accolto il Trattismo a Berlino?

M.F: Già dall’inizio il nostro lavoro fu oggetto di una certa attenzione soprattutto da parte di alcuni movimenti che, proprio in quegli anni, si stavano affermando, penso soprattutto al punk che con il Trattismo condivideva alcuni aspetti fondanti del manifesto. In particolare, l’idea di dipingere mezzi in movimento con motivi pittorici trattisti venne accolta con entusiasmo e il primo a chiedermi di dipingere la sua Volkswagen, nell’ottobre 1983, fu Roberto Gavin, di Vigevano, naturalizzato berlinese. Mentre la macchina andava in giro per la città, nel marzo ‘85 trovò l’interesse del regista Dante Maiorana che si trovava a Berlino Ovest con gli attori della Gaia Scienza, Marco Solari e Alessandra Vanzi, con l’idea di realizzare un cortometraggio per la RAI di Milano. Decise di girare delle scene in cui la macchina procedeva per le strade di Berlino Ovest.  L’idea di dipingere una porzione di “Muro” con gli stessi motivi pittorici della Volkswagen fu prontamente apprezzata dal regista e realizzai l’intervento cromatico direttamente sul “Muro”. Nei giorni successivi realizzai alcune performance in velocità per simulare l’abbattimento del “Muro” stesso, fino a porre staticamente l’auto a diretto contatto della barriera di cemento cromaticamente mimetizzato (cosa è mimetizzato?) con l’intento di fermare nel tempo l’idea di un suo abbattimento ideale. Abbattimento che, di lì a pochi anni, sarebbe realmente accaduto come ci testimonia la storia.

M.N. Incontrasti difficoltà a dipingere il Muro in considerazione di quella tensione da sorveglianza post-bellica che si respirava a Berlino in quegli anni?

M.F. A Berlino c’erano i militari che controllavano in maniera ossessiva tutto quello che poteva rappresentare un pericolo dati i tempi della Guerra Fredda, già solo arrivare in città era complicato: si superava prima l’ingresso nella Germania Est (e chi veniva dal Sud, doveva fare circa trecento chilometri senza superare i 90 km/h), poi, all’ingresso di Berlino Ovest, si doveva oltrepassare la frontiera di appartenenza di una delle tre nazioni occupanti, da Sud quella americana. C’era tutta un’atmosfera militaresca che certo non facilitava certe iniziative, ma per dipingere il Muro fu chiesto un normale permesso alla Polizei di Berlino Ovest che fu concesso senza problemi. In realtà, non era il primo muro a essere oggetto dell’intervento trattista  poiché io e un altro collega dipingemmo nottetempo il muro di un supermarket nella Winterfeldtplatz, ma qualche spia chiamò le forze dell’ordine che, non solo impedirono di concludere l’intervento ma ci denunciarono: fece seguito un processo e la sanzione comportò l’obbligo di ricoprire le pitture con il bianco, che fu regolarmente rubato (cosa fu rubato?) , sempre nottetempo, da un cantiere lì vicino.

Ma torniamo alla Volkswagen trattista che è l’oggetto della tua open call rivolta al pubblico marchigiano…

Dopo la realizzazione del video da parte del regista Dante Maiorana, la Volkswagen continuò a girare per la città finché invitai come ospite l’artista marchigiano Roberto Torreggiani – che si divideva tra Parigi e Stoccolma – il quale mi propose di valorizzare la macchina portandola in Italia e, precisamente, nel paese in cui lui aveva una casa (e dove Enrico Crispolti, autorevole storico dell’arte, era solito passare le vacanza), a Ripe di San Genesio dove, mi si diceva, era in previsione l’apertura di un Museo d’Arte contemporanea che avrebbe potuto accogliere la macchina dipinta. L’idea m’incuriosì e decisi di intraprendere questo lungo viaggio e riportare la macchina in Italia. La prima tappa fu Roma, dove venne esposta in Via Garibaldi davanti la Galleria MR di Massimo Riposati. In seguito, partito alla volta delle Marche, la consegnai, perfettamente funzionante e insieme alle chiavi, alla persona che mi era stata indicata, il portiere dello stabile adiacente alla Torre del paese, in attesa che, in futuro, trovasse posto nel museo.

Volswagen

Quella fu l’ultima volta che la vidi. Anni dopo, in occasione del ventennale della caduta del Muro di Berlino, nel 2009, realizzai un’opera per ricordarne l’evento: un’installazione realizzata gettando in opera un muro di due metri e mezzo, a simulazione di quello berlinese, in cui affogai una bicicletta tedesca in senso longitudinale, divisa in una metà ideale tra Est e Ovest come a voler fermare il momento di quella suddivisione nel tempo e nello spazio. In quell’occasione molte persone ricollegarono quei segni e quell’intervento a quelli che io  avevo realizzato sulla macchina e sul Muro di Berlino e mi stimolarono a cercare di scoprire quale fossero state le sorti della Volkswagen. Iniziai a fare delle indagini via Facebook e un artista locale di Ripe san Genesio mi ha fece sapere che la macchina era rimasta esposta, addirittura per quindici anni nella piazza del paese per poi essere dislocata altrove.

Negli anni hai mai pensato di cercarla attraverso altri appelli?

Attorno al 2010, via Facebook, feci un primo richiamo per cercare di individuarla e ci fu un’unica risposta, quella dell’artista marchigiano Mauro Mazziero il quale, anni prima, spostandosi in pullman da Recanati per raggiungere l’Accademia di Macerata, si ricordava di averla vista e di avere ancora impressi nella memoria quei colori e quei segni che la rendevano assolutamente riconoscibile nella quiete del paesaggio marchigiano.

Oltre all’esperienza della Volkswagen trattista che ti ha legato indissolubilmente alle Marche, hai avuto altre occasioni nel corso della tua lunga esperienza di artista di entrare in contatto con questo territorio?

Un’altra macchina che fu dipinta a Berlino Ovest nel lontano ’85, anche se non di pari importanza come la Volkswagen trattista, fu una Golf il cui proprietario era un marchigiano, Luigino Giustozzi, di Montecosaro Scalo, anche lui naturalizzato berlinese. Mi capitò successivamente di andarlo a trovare d’estat ea Montecosaro e restai particolarmente colpito dalla bellissima chiesa del paese, caratterizzata da un singolare doppio abside. Luigino fu un grande sostenitore del gruppo e condivise con noi il viaggio nella Golf trattista in giro per l’Europa a Bristol, Londra, Edimburgo e poi in un secondo viaggio fino a Stoccolma, attraverso varie tappe di quella lunga erranza trattista mai conclusa e che, ancora oggi, possiamo dire, prosegue nella memoria e nelle azioni che guidano la mia ricerca artistica.

https://youtu.be/r4aEoNoHT9o

Marianna Neri –  Storica dell’arte, Responsabile dell’Archivio Fioramanti

 


L’ELEGANZA SENZA TEMPO DEL SEGNO: DIALOGO CON PAOLO GOBBI – di Loredana Finicelli

La grande officina delle Marche è attiva da secoli nel forgiare talenti originali e di spessore e Paolo Gobbi, nato a San Severino Marche nel 1959, docente all’Accademia di Belle Arti di Macerata, ne è una piacevole conferma.

Artista da sempre, allievo di Magdalo Mussio, pittore dal lirismo scabro e senza tempo che tanto ha dato all’arte contemporanea, e ora oggetto di una giusta e meritata valorizzazione, si distingue per una ricerca solida e coerente che lo impegna da più di trent’anni, un lavoro interpretativo che partendo dalla pittura si è misurato con materiali e tecniche differenti, mantenendo intatta una poetica volta a indagare la ricchezza espressiva del segno.

2016 – Tecnica mista su cartone con supporto in ferro

Paolo Gobbi viene dalla pittura – e si vede – perché, di là dai materiali e degli strumenti che utilizza, è solito agire pittoricamente su qualsiasi superficie, vale a dire è capace di infondere al segno una qualità espressiva in grado di trascendere il supporto per farsi immagine percettiva, allusiva a una varietà di significati. Una immagine, quindi, che è tutta intuita e intuibile, racchiusa nella potenzialità di un segno minuto eppure dirompente nella sua essenzialità diafana e in quel suo mantenersi in equilibrio perfetto tra visibile e invisibile, dove il tridimensionale è il punto equidistante tra una percezione tanto illusoria quanto reale. Perché in questi segni dall’aspetto elementare, che brillano per una eleganza senza tempo, Gobbi riesce a infondere una tale energia e densità strutturale che li rende capaci di competere con la plasticità soda di certi modellati scultorei e con la tensione dinamica di certe architetture odierne. Una ricerca tutta centrata a svelare i rapporti tra segno e superficie, tra segno e materia, tra segno e colore: una “pittura” della relazione tra le parti e della loro immanenza nel tempo.

Nell’uso di una grande varietà di materiali e di tecniche si riflettono le molteplicità del reale, e, proprio in questo, quella di Gobbi si precisa come una ricerca che non è mai astratta, ma in virtù delle mille relazioni che il segno stringe con il mondo, essa appare sempre incardinata nel quotidiano e nelle sue infinite sfaccettature, minute, preziose, immanenti.

Una selezione della sua vasta produzione, compresa tra il 2006 e il 2018, oltre un decennio di lavori, è ora in mostra alla Fondazione Umberto Mastroianni presso il Castello di Ladislao di Arpino, (provincia di Frosinone) da anni diretta con abilità e competenza dalla storica e critica d’arte Loredana Rea. Proprio dal confronto critico e dallo scambio di vedute oramai decennale tra l’artista e il critico nasce questa esposizione straordinaria, per estensione e varietà, quasi un’antologica, che si avvale di una curatela di rango, come quella di Loredana Rea a e di Maurizio Coccia, direttore del Centro per l’Arte contemporanea di Palazzo Lucarini a Trevi.

Un’esposizione che colpisce per il lavoro di stratificazione critica e materiale delle opere; per la ricerca continua e certosina di una relazione con lo spazio e con il contesto; una mostra ricchissima nei materiali, nelle tecniche proposte, nei metodi e nei generi, allestita con grande perizia e competenza su cui svetta una raffinatezza di fondo che accompagna tutto l’allestimento della mostra. Un lavoro di assemblaggio dove ogni aspetto è curato  con attenzione e dove l’eleganza, che poi è la cifra distintiva dell’opera di Gobbi, pare essere la bussola per orientarsi nella mostra il cui titolo, curioso e implicitamente ricco di suggestione, è Piccolo infinito quotidiano.

In occasione della mostra abbiamo incontrato Paolo Gobbi e scambiato quattro chiacchiere sul suo lavoro.

L.F Piccolo Infinito Quotidiano. Paolo Gobbi, un titolo suggestivo e poetico, una sintesi che riflette l’essenza e il leit motif della tua opera.

P.G. Come tu hai ricordato in apertura di questa intervista, sono stato allievo di Magdalo Mussio che tanto ha operato nel campo della poesia visiva lasciando in eredità una ricerca che continua attraverso i suoi allievi e ancora oggi è particolarmente florida e vivace. Quindi, l’aspetto della ricerca lirica, di quel segno che è manifestazione essenziale di un sentire lucido, nitido, ma anche profondamente riflessivo, ritorna sempre nella mia opera. Un segno che è uno sguardo acuto attraverso il quale interpretare il mondo e la realtà, anche nelle sue minuzie, nei suoi aspetti meno eclatanti, eppure capaci di emanare una potenza infinita che è al di là del visibile, come lo sono l’intuizione o l’immaginazione. Del resto, noi marchigiani siamo particolarmente legati al concetto di infinito, quel concetto che nessuno, meglio del nostro amato Giacomo Leopardi ha saputo sintetizzare in versi, ma anche in straordinarie visioni collettive. Quell’infinito che si manifesta in ogni aspetto del reale, in ogni porzione per quanto infinitesimale, ma anche banale, ordinaria possa essere, è quello il punto di partenza della percezione. E a questo allude il titolo della mostra Piccolo Infinito quotidiano, formula perfetta con cui i curatori Loredana Rea e Maurizio Coccia hanno interpretato gli aspetti cardine della mia ricerca.

L.F. Colpisce, nel visitare la tua mostra, la varietà dei supporti che utilizzi, le differenti cromie che impieghi e che finiscono per esaltare, ma anche per conferire, di volta in volta, qualità differenti ai tuoi segni; la grande cura nella esposizione dei lavori che cercano sempre il raccordo con gli ambienti e con il contesto.

P.G. Il reale ha tanti aspetti, è per sua natura molteplice e lavorando sulla varietà materiale e quindi espressiva, ho cercato di restituire proprio quella molteplicità che poi è anche molteplicità percettiva; ho cercato di indagare come, di volta in volta, il segno reagisca e si relazioni con i diversi materiali e supporti, una sfaccettatura che riflette una varietà percettiva, ma richiama, anche, il numero di esperienze artistiche con cui mi sono misurato dall’inizio della mia attività tra cui, ovviamente, l’incisione, di cui la mia ricerca porta evidentemente impressa l’eredità. Un segno solo apparentemente astratto perché in realtà vuole essere descrittivo e narrativo di tutte le sollecitazioni che il reale nasconde e suscita a un osservatore attento, capace di decodificarne gli stimoli. Un segno che va alla ricerca dello spazio, intraprende relazioni, si amplifica e si esalta nello scambio con supporti di differenti materiali e cromie, come rame, alluminio; un segno che, come lo ha definito Loredana Rea nella Presentazione della mostra “è autosignificante, riporta l’infinito nella quotidianità”.

L.F. Il terremoto del 2016, un’esperienza drammatica che non poteva non essere tracciata dal tuo lavoro. Una riflessione da cui sono nate una serie di installazioni e un video realizzato da tuo figlio Silvio.

P.G. Sì, naturalmente, un evento come l’ultimo sisma a solo vent’anni  dall’altro rovinoso terremoto del ’97 non poteva non diventare oggetto di una riflessione, visto il carico di distruzione, ma anche di riconfigurazione ambientale, urbanistica, legata all’immaginario che tale evento produce. Un evento rovinoso che frattura il paesaggio e scuote le costruzioni, penetrando fin sotto le radici come fondamenta della nostra collettività, ma anche del nostro essere. In tal senso, i pannelli nascono con l’intento di documentare quell’evento drammatico a partire dai segni lasciati nel suolo dalle macerie, segni che sono il frutto di una energia vigorosa ma squassante. Sulla superficie di metallo ho impresso i segni relativi alle piante degli edifici crollati, settanta costruzioni della periferia di San Severino Marche. Nel pannello è impressa la traccia di una costruzione che fu, ma che ora spicca per la sua assenza, una presenza documentata dai tratti segnici lasciati nella superfice terrena, come ferite aperte e vive di un territorio offeso.

L.F. Un lavoro di grande lirismo, organizzato intorno all’essenzialità costruttiva del tratto che, non ha caso, si è spesso relazionato con la poesia. Una parte significativa di questa mostra tratta proprio del tuo rapporto tra la tua opera e la poesia di Eugenio Montale, ce ne vuoi parlare?

P.G. Sì, i lavori del piano superiore, quelli che dialogano con l’opera di Umberto Mastroianni, passaggio interpretativo a cui sono chiamati tutti gli artisti che espongono in Fondazione, sono quelli della serie Tratti da Xenia, 14 opere realizzate nel 2013 e dedicate agli Xenia di Montale, 14 poesie che il poeta ligure aveva dedicato alla moglie Drusilla Tanzi – detta “Mosca” per via dei suoi occhiali da miope –  e scomparsa nel 1963.  Per un fortuito incrocio, gli Xenia, su indicazione di Giorgio Zampa, erano stati stampati a san Severino, presso la tipografia Bellabarba, in una edizione limitatissima, che, nelle intenzioni del poeta doveva essere un “opuscolo di campagna”. Gli Xenia confluiranno poi nella raccolta Satura, pubblicata nel 1971. Al 2013, cinquantenario della morte di Drusilla, risalgono i miei lavori su alluminio che interpretano le poesie di Montale e instaurano un dialogo con le opere di Mastroianni; al 2018, e quindi realizzati in occasione di questa mostra, trova spazio una nuova serie di Tratti da Xenia: lavori, questi, che, rispetto al passato si misurano con supporti diversi dal metallo come le cartelle d’archivio, un oggetto che chiama in causa la memoria e soprattutto la conservazione ordinata della memoria che va costudita, ma anche velocemente recuperata; un’idea a di memoria, culturale, poetica, come patrimonio cumulabile e cumulato.

La mostra, Piccolo infinito quotidiano, sarà visibile alla Fondazione Mastroianni fino alla metà di luglio, in un allestimento di straordinaria potenza ed efficacia. Dal Castello di Ladislao la mostra si sposterà poi a Palazzo Lucarini di Trevi. Quale che sia la sede che decidete di visitare, non mancate questo appuntamento con l’opera raffinatissima di Paolo Gobbi.

2016 – Pagine per montale – tecnica mista su cartella di archivio