26/06/2020

MICHELA SCOLARO Da Bologna verso gli spazi infiniti – di Loredana Finicelli

By artedellamarca

Ogni studioso, nel corso della sua formazione, incontra qualcuno che ne determina il percorso o in qualche modo, ne orienta il destino intellettuale, le ricerche future, le modalità di approccio alla disciplina, in una messa a punto dei metodi che vanno dall’individuazione delle fonti, al loro esame analitico e veritiero, all’ interpretazione critica, efficace e ponderata. Qualcuno a cui consegnare interamente le chiavi della propria casa in costruzione, fatta di buone letture, di esperienze eterogenee, di riflessioni critiche, di errori grossolani, talvolta di svarioni prospettici eclatanti, da doverli aggiustare in corso d’opera. Qualcuno al quale concedersi con totale fiducia giovanile, certi che nulla potrà dissolvere quella prima sensazione di trasporto, perché ci sono anni in cui tutto è incredibilmente giusto, perfetto e puro e la morte, poi, è un fenomeno talmente remoto, da non rientrare neanche nelle possibili e imprevedibili pieghe della vita. Qualcuno, il cui solo suono della voce inneschi il pensiero mentre l’intuizione limpida e repentina che si delinea, fa battere il cuore. Questo qualcuno, per me, è stato Michela Scolaro, storica dell’arte e critica bolognese, per molti anni docente di Storia dell’Arte contemporanea e Museografia per il corso di Scienze dei Beni culturali dell’Università degli Studi di Macerata.

M. Scolaro


Conobbi Michela Scolaro tanti anni fa, nel corso di un master biennale che si svolgeva a San Severino Marche; anni in cui cercavo risposte al mondo sfuggente e scivoloso della conservazione dei beni culturali, in quell’intrico affascinante in cui teoria e pratica si sovrappongono e si compenetrano, compensando la vastità teorica della storia dell’arte e l’esercizio costante del pensiero critico e speculativo. Non che in quel periodo non sapessi chi fossi e, neanche, chi fosse lei, di cui avevo avuto già modo di apprezzare gli scritti. Gli anni di formazione alla Sapienza, gli studi con Orietta Rossi Pinelli, nella cattedra di Marisa Volpi, mi avevano introdotto alle difficoltà della tutela e ai problemi della conservazione delle opere nel contesto di origine; alle discussioni intorno alla opportunità o meno del museo, sulla natura artificiale e per nulla spontanea di tale contenitore di bellezza. I seminari svolti per Antonella Sbrilli, agli albori della mia carriera universitaria, mi avevano portato a contatto con gli scritti della Scolaro e ne avevo fin da subito apprezzato la prosa appassionata e la sintassi cristallina, e mi avevano svelato la bellezza di una delle opere più appassionanti della letteratura artistica, vale a dire le Lettres a Miranda[1].

[1] Lettres sur le préjudice qu’occasionneroient aux arts et à al science, le déplacement des monumens de l’art de l’Italie, le démembrement de ses écoles, et la spolation de ses collections, galeries, musées, &c., dette sinteticamente « Lettres a Miranda », una raccolta di sette lettere indirizzate al generale Francisco de Miranda e pubblicate a Parigi nel 1796 con le sole iniziali del nome dell’autore.

Le lettere

Opera dalla prosa coinvolgente e dall’atmosfera affascinante, le “Lettere” sono state il primo scritto di Michela Scolaro che ho avuto la fortuna di leggere, il primo di molti altri e tutti incredibilmente densi di spunti, finestre spalancate sul mondo dell’arte e sulla vastità della cultura. Disponibili in due edizioni, la prima, Lo studio delle Arti e il Genio dell’Europa, oltre alla sua traduzione delle Lettere, presentava i saggi di Andrea Emiliani e di Antonio Pinelli: si trattava di uno studio d’avanguardia, capace di svelare al lettore i primi rudimenti della conservazione, di metterlo a contatto con quel raffinatissimo circuito di autori e cultori del neoclassicismo. Carlo Fea, Ennio Quirino Visconti, Antonio Canova, il cardinal Consalvi erano i protagonisti di uno snodo storico in cui giungevano a maturazione i prodromi e le premesse di quel documento straordinario e fondativo che sarebbe stato il chirografo di Pio VII Chiaramonti. Era il momento in cui mi interfacciavo con continuità alla figura oramai cara di Antoine Chrisostome Quatremère de Quincy, storico dell’arte battagliero e polemista coraggioso, tanto da sfidare, con il suo appassionato pamphlet, il sogno napoleonico della novella Atene, che anelava a raggruppare tutti i capolavori d’Europa a Parigi, Francia. Nelle sue pagine appassionate, prendevano forma concetti a noi consueti e si arrivava a formulare quella teoria del contesto oggi imprescindibile premessa di qualsiasi azione conservativa corretta e adeguata. Una denuncia vibrante e, insieme, un’acclarata dichiarazione d’amore, verso un’Italia umiliata e spogliata delle sue bellezze eterne.

La seconda edizione delle Lettres a Miranda, Lettere a Miranda (2002), si arricchiva di nuovi apparati e dei contributi di un celebre studioso che, da un certo punto in poi, diventerà per Michela un compagno di viaggio e di scoperte: Edouard Pommier. Ancora una volta, si trattava di un libro dai contenuti preziosi, pieno di spunti sempre attuali, un omaggio alla figura gagliarda di Quatremére, il cui profilo guadagnava in rilievo e spessore. Ancora oggi, a tanti anni di distanza, riecheggiano in me le invocazioni accorate di quel polemista francese che sembrano avere, nonostante i progressi, una loro inevitabile attualità: “sapete troppo bene, amico mio, che dividere è distruggere”; “ non c’è alcun vero museo se non in un contesto”: frasi che non ho mai dimenticato e che ancora oggi ispirano il mio lavoro di ricerca e rischiarano la mia riflessione critica.

Da quel lontano giorno di un febbraio d’inizio millennio, insieme a Michela Scolaro – altissima, biondissima, elegantissima – Quatremére de Quincy, Johann Winckelmann, Antonio Canova, membri di quel circolo neoclassico gravitante intorno a Villa Albani, sono diventati miei assidui compagni di strada; un tragitto culturale che nel tempo si è arricchito di nuovi personaggi e suggestioni, da Roland Barthes a Marcel Proust, e, su tutti, André Gide. Una strada sempre illuminata dagli splendidi saggi di Pommier, con il quale Michela aveva già realizzato uno dei libri più belli e intensi che abbia mai letto e una bussola di indirizzamento tra le mille difficoltà della ricerca: parlo di Più antichi della luna, anno 2000 .

Francesco Arcangeli

Da Michela Scolaro ho imparato quanti oscuri possono essere i moti della storia, se la loro lettura non è supportata da una conoscenza solida degli eventi e da una riflessione lucida, analitica e oggettiva, capace di cogliere le connessioni esatte e le relazioni corrette: figlia naturale degli strutturalisti francesi, prossima a Barthes e a Foucault, la visione analitica di Michela Scolaro è sempre stata volta a rintracciare le griglie, a cercare uno sguardo d’insieme teso a esaminare gli schemi, ad analizzare le strutture entro cui, anche involontariamente, i protagonisti hanno agito e, agendo, creato e costruito, talvolta distrutto o rinnegato. Trasmettendomi quest’acutezza di sguardo, in lei sostenuta da un senso dell’intuizione non comune, mi ha insegnato a individuare il sistema generale, l’insieme delle relazioni che sovrastano la volontà individuale, il corso dell’esistenza, i comportamenti soggettivi; mi ha invitato a ragionare in termini esclusivi di complessità arricchente, organizzazione multiforme e prospettive scientifiche, facendo attenzione che il fenomeno non venisse mai isolato dal resto. Di fatto, è riuscita a mettere insieme due insegnamenti fondamentali: quello proveniente dal suo maestro eccellente, Andrea Emiliani, profeta del territorio (Dal museo al territorio, 1974) e di una storia dell’arte e della cultura che da esso emana, traendone linfa e significato, e quello tutto personale, maturato negli anni di studio parigini in una contaminazione attiva ed energizzante tra studi di linguistica, semiotica e arte, conclusosi, infine, con una laurea in lingua e letteratura francese e una visione personalissima del mondo e della storia: personale, ma colta e di straordinaria lucidità.

 

Non potrò dimenticare, durante i nostri viaggi in America Latina, l’attenzione riservata a un piccolo quadro del Mastelletta, una scena di guerra conservata al Museo Nacional di Buenos Aires, applicazione tangibile dell’insegnamento derivato da Quatremère, convinto che tutto, anche l’artista meno noto o significativo fosse indispensabile nella costituzione viva del tessuto dell’arte e nella trasmissione dei valori della scuola. Michela Scolaro era così, capace di esaltarsi di fronte alla luce aggrumata e vibrante della trama pittorica di Mastelletta e di spendere parole commosse davanti a Campigli; lodare la sensibilità di tratto e di temperamento di un De Pisis, mantenere un raccoglimento composto di fronte alla poesia rivelata delle opere di Morandi, artista oggetto di mostre e scritti durante tutta la sua carriera.

Un corpus ricchissimo di riflessioni e sollecitazioni che tuttavia sono nulla rispetto all’attenzione che questa studiosa ha riservato a Francesco Arcangeli. Un autore verso il quale mi ha trasmesso intatta la passione, tanto che, periodicamente, non posso fare a meno di riprendere in mano e sfogliare i suoi libri, convinta, come lei, che in quegli scritti risieda una sapienza insuperata e una capacità di penetrazione inarrivabile.

Per Francesco Arcangeli, Michela ha sempre avuto un trasporto speciale; non solo per quella radice longhiana che Arcangeli condivideva con Emiliani (e con Marisa Volpi); forse per quella comune origine emiliana ma, ancora di più, per una cogente sensibilità condivisa, una specie di comune sentire che rende taluni personaggi complessi e addirittura emarginati nel mondo, certamente difficili e spigolosi alle relazioni. Più di tutto, credo, che con Arcangeli, Michela sentisse di condividere un’umanità di getto, ruvida ma autentica e che la riscontrasse in ogni parola, scritto, osservazione critica, in ogni slancio visionario di questo incredibile autore. Nell’introduzione a Natura ed espressione nell’arte bolognese-emiliana, Michela Scolaro torna più volte sul concetto di umanità, su quel sentimento semplice, solido e autenticamente “fisico”, dotato di una natura materiale e viva, tratti evidenti di un trasporto e di una passione interiore che riscontrava in Arcangeli ma che in fondo le assomigliavano e le appartenevano. Quegli stessi tratti eccentrici e insoliti che Arcangeli aveva ravvisato nei suoi amati artisti eretici e bizzarri, controcorrente nel gusto come Vitale da Bologna, Amico Aspertini, Ludovico Carracci, G.M. Crespi e infine in Morandi, pittore monumentale e silenzioso, e al quale aveva dedicato pagine d’insuperato lirismo, fissandone nel tempo l’assoluta grandezza.

Non è un caso che Michela Scolaro chiamasse spesso in causa le “famiglie spirituali”, un concetto tratto da Henry  Focillon e utilizzato nell’interpretazione del lavoro critico di Arcangeli, principio capace di spiegare le affinità espressive e di sensibilità tra uomini distanti nel tempo e nello spazio: ancora una volta, si trattava di un sentire comune, capace di trascendere epoche e confini per farsi forma ed espressione; ancora visionari eccentrici, dunque, amati da Focillon, da Arcangeli e dalla Scolaro. L’incontro con Arcangeli non è stato episodico nella sua formazione e nella sua vita professionale. A lei si devono, su incarico della Fondazione del Monte, le mostre e le pubblicazioni dedicate ai grandi maestri di area emiliana del Novecento, molti dei quali studiati e curati, promossi in passato proprio da Arcangeli e valorizzati e riproposti attraverso una serie di mostre e pubblicazioni da lei firmate e curate nei primi anni Duemila.

Infine, per chiudere questo breve testo che vuol essere un piccolissimo omaggio a una persona a cui devo moltissimo, sotto il profilo scientifico e personale, credo che qualsiasi scritto dedicato a Michela Scolaro debba far riferimento alla principale protagonista della sua formazione ovvero a una intellettuale raffinatissima come Franca Varignana, sua madre, nota storica dell’arte, operante a Bologna a partire dagli anni settanta. Avendo avuto occasione, anche recentemente, di leggere alcuni suoi scritti, è inevitabile notare le tante affinità che ricorrono tra queste studiose, individuabili nella struttura precisa, nel lessico sobrio ma brillante, nella sintassi cristallina, nelle modalità di ricerca argute e puntuali.

A unirle – e non solo nella scrittura – rimane oggi la suggestione di un’eleganza diafana e senza tempo, manifestazione ultima e tenace di un pensiero che, portico dopo portico, passo dopo passo, si apre con sguardo lucido su spazialità che sono finalmente immense e prive di confini, proprio come quella sensibilità intellettuale e artistica che entrambe hanno posseduto e riversato nel lavoro di storiche dell’arte.