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MICHELA SCOLARO. Da Bologna verso gli spazi infiniti – di Loredana Finicelli

Ogni studioso, nel corso della sua formazione, incontra qualcuno che ne determina il percorso o in qualche modo, ne orienta il destino intellettuale, le ricerche future, le modalità di approccio alla disciplina, in una messa a punto dei metodi che vanno dall’individuazione delle fonti, al loro esame analitico e veritiero, all’ interpretazione critica, efficace e ponderata. Qualcuno a cui consegnare interamente le chiavi della propria

M. Scolaro


casa in costruzione, fatta di buone letture, di esperienze eterogenee, di riflessioni critiche, di errori grossolani, talvolta di  svarioni prospettici eclatanti, da doverli aggiustare in corso d’opera. Qualcuno al quale concedersi con totale fiducia giovanile, certi che nulla potrà dissolvere quella prima sensazione di trasporto, perché ci sono anni in cui tutto è incredibilmente giusto, perfetto e puro e la morte, poi, è un fenomeno talmente remoto, da non rientrare neanche nelle possibili e imprevedibili pieghe della vita. Qualcuno, il cui solo suono della voce inneschi il pensiero mentre l’intuizione limpida e repentina che si delinea, fa battere il cuore. Questo qualcuno, per me, è stato Michela Scolaro, storica dell’arte e critica bolognese, per molti anni docente di Storia dell’Arte contemporanea e Museografia per il corso di Scienze dei Beni culturali dell’Università degli Studi di Macerata.

Conobbi Michela Scolaro tanti anni fa, nel corso di un master biennale che si svolgeva a San Severino Marche; anni in cui cercavo risposte al mondo sfuggente e scivoloso della conservazione dei beni culturali, in quell’intrigo affascinante in cui teoria e pratica si sovrappongono e si compenetrano, compensando la vastità teorica della storia dell’arte e l’esercizio costante del pensiero critico e speculativo. Non che in quel periodo non sapessi chi fossi e, neanche, chi fosse lei, di cui avevo avuto già modo di apprezzare gli scritti. Gli anni di formazione alla Sapienza, gli studi con Orietta Rossi Pinelli, nella cattedra di Marisa Volpi, mi avevano introdotto alle difficoltà della tutela e ai problemi della conservazione delle opere nel contesto di origine; alle discussioni intorno alla opportunità o meno del museo, sulla natura artificiale e per nulla spontanea di tale contenitore di bellezza. I seminari svolti per Antonella Sbrilli, agli albori della mia carriera universitaria, mi avevano portato a contatto con gli scritti della Scolaro e ne avevo fin da subito apprezzato la prosa appassionata e la sintassi cristallina, e mi avevano svelato la bellezza di una delle opere più appassionanti della letteratura artistica, vale a dire le Lettres a Miranda[1]. Opera dalla prosa coinvolgente e dall’atmosfera affascinante, le “Lettere” sono state il primo scritto di Michela Scolaro che ho avuto la fortuna di leggere, il primo di molti altri e tutti incredibilmente densi di spunti, finestre spalancate sul mondo dell’arte e sulla vastità della cultura. Disponibili in due edizioni, la prima, Lo studio delle Arti e il Genio dell’Europa, oltre alla sua traduzione delle Lettere, presentava i saggi di Andrea Emiliani e di Antonio Pinelli: si trattava di uno studio d’avanguardia, capace di svelare al lettore i primi rudimenti della conservazione, di metterlo a contatto con quel raffinatissimo circuito di autori e cultori del neoclassicismo. Carlo Fea, Ennio Quirino Visconti, Antonio Canova, il cardinal Consalvi erano i protagonisti di uno snodo storico in cui giungevano a maturazione i prodromi e le premesse di quel documento straordinario e fondativo che sarebbe stato il chirografo di Pio VII Chiaramonti. Era il momento in cui mi interfacciavo con continuità alla figura oramai cara di Antoine Chrisostome Quatremère de Quincy, storico dell’arte battagliero e polemista coraggioso, tanto da sfidare, con il suo appassionato pamphlet, il sogno napoleonico della novella Atene, che anelava a raggruppare tutti i capolavori d’Europa a Parigi, Francia. Nelle sue pagine appassionate, prendevano forma concetti a noi consueti e si arrivava a formulare quella teoria del contesto oggi imprescindibile premessa di qualsiasi azione conservativa corretta e adeguata. Una denuncia vibrante e, insieme, un’acclarata dichiarazione d’amore, verso un’Italia umiliata e spogliata delle sue bellezze eterne. La seconda edizione delle Lettres a Miranda, Lettere a Miranda (2002), si arricchiva di nuovi apparati e dei contributi di un celebre studioso che, da un certo punto in poi, diventerà per Michela un compagno di viaggio e di scoperte: Edouard Pommier. Ancora una volta, si trattava di un libro dai contenuti preziosi, pieno di spunti sempre attuali, un omaggio alla figura gagliarda di Quatremére, il cui profilo guadagnava in rilievo e spessore. Ancora oggi, a tanti anni di distanza, riecheggiano in me le invocazioni accorate di quel polemista francese che sembrano avere, nonostante i progressi, una loro inevitabile attualità: “sapete troppo bene, amico mio, che dividere è distruggere”; “ non c’è alcun vero museo se non in un contesto”: frasi che non ho mai dimenticato e che ancora oggi ispirano il mio lavoro di ricerca e rischiarano la mia riflessione critica.

Le lettere

Da quel lontano giorno di un febbraio d’inizio millennio, insieme a Michela Scolaro – altissima, biondissima, elegantissima – Quatremére de Quincy, Johann Winckelmann, Antonio Canova, membri di quel circolo neoclassico gravitante intorno a Villa Albani, sono diventati miei assidui compagni di strada; un tragitto culturale che nel tempo si è arricchito di nuovi personaggi e suggestioni, da Roland Barthes a Marcel Proust, e, su tutti, André Gide. Una strada sempre illuminata dagli splendidi saggi di Pommier, con il quale Michela aveva già realizzato uno dei libri più belli e intensi che abbia mai letto e una bussola di indirizzamento tra le mille difficoltà della ricerca: parlo di Più antichi della luna, anno 2000 . Da Michela Scolaro ho imparato quanti oscuri possono essere i moti della storia, se la loro lettura non è supportata da una conoscenza solida degli eventi e da una riflessione lucida, analitica e oggettiva, capace di cogliere le connessioni esatte e le relazioni corrette: figlia naturale degli strutturalisti francesi, prossima a Barthes e a Foucault, la visione analitica di Michela Scolaro è sempre stata volta a rintracciare le griglie, a cercare uno sguardo d’insieme teso a esaminare gli schemi, ad analizzare le strutture entro cui, anche involontariamente, i protagonisti hanno agito e, agendo, creato e costruito, talvolta distrutto o rinnegato. Trasmettendomi quest’acutezza di sguardo, in lei sostenuta da un senso dell’intuizione non comune, mi ha insegnato a individuare il sistema generale, l’insieme delle relazioni che sovrastano la volontà individuale, il corso dell’esistenza, i comportamenti soggettivi; mi ha invitato a ragionare in termini esclusivi di complessità arricchente, organizzazione multiforme e prospettive scientifiche, facendo attenzione che il fenomeno non venisse mai isolato dal resto. Di fatto, è riuscita a mettere insieme due insegnamenti fondamentali: quello proveniente dal suo maestro eccellente, Andrea Emiliani, profeta del territorio (Dal museo al territorio, 1974) e di una storia dell’arte e della cultura che da esso emana, traendone linfa e significato, e quello tutto personale, maturato negli anni di studio parigini in una contaminazione attiva ed energizzante tra studi di linguistica, semiotica e arte, conclusosi, infine, con una laurea in lingua e letteratura francese e una visione personalissima del mondo e della storia: personale, ma colta e di straordinaria lucidità. Non potrò dimenticare, durante i nostri viaggi in America Latina, l’attenzione riservata a un piccolo quadro del Mastelletta, una scena di guerra conservata al Museo Nacional di Buenos Aires, applicazione tangibile dell’insegnamento derivato da Quatremère, convinto che tutto, anche l’artista meno noto o significativo fosse indispensabile nella costituzione viva del tessuto dell’arte e nella trasmissione dei valori della scuola. Michela Scolaro era così, capace di esaltarsi di fronte alla luce aggrumata e vibrante della trama pittorica di Mastelletta e di spendere parole commosse davanti a Campigli; lodare la sensibilità di tratto e di temperamento di un De Pisis, mantenere un raccoglimento composto di fronte alla poesia rivelata delle opere di Morandi, artista oggetto di mostre e scritti durante tutta la sua carriera.  Un corpus ricchissimo di riflessioni e sollecitazioni che tuttavia sono nulla rispetto all’attenzione che questa studiosa ha riservato a Francesco Arcangeli.

Francesco Arcangeli

Un autore verso il quale mi ha trasmesso intatta la passione, tanto che, periodicamente, non posso fare a meno di riprendere in mano e sfogliare i suoi libri, convinta, come lei, che in quegli scritti risieda una sapienza insuperata e una capacità di penetrazione inarrivabile. Per Francesco Arcangeli, Michela ha sempre avuto un trasporto speciale; non solo per quella radice longhiana che Arcangeli condivideva con Emiliani (e con Marisa Volpi); forse per quella comune origine emiliana ma, ancora di più, per una cogente sensibilità condivisa, una specie di comune sentire che rende taluni personaggi complessi e addirittura emarginati nel mondo, certamente difficili e spigolosi alle relazioni. Più di tutto, credo, che con Arcangeli, Michela sentisse di condividere un’umanità di getto, ruvida ma autentica e che la riscontrasse in ogni parola, scritto, osservazione critica, in ogni slancio visionario di questo incredibile autore. Nell’introduzione a Natura ed espressione nell’arte bolognese-emiliana, Michela Scolaro torna più volte sul concetto di umanità, su quel sentimento semplice, solido e autenticamente “fisico”, dotato di una natura materiale e viva, tratti evidenti di un trasporto e di una passione interiore che riscontrava in Arcangeli ma che in fondo le assomigliavano e le appartenevano. Quegli stessi tratti eccentrici e insoliti che Arcangeli aveva ravvisato nei suoi amati artisti eretici e bizzarri, controcorrente nel gusto come Vitale da Bologna, Amico Aspertini, Ludovico Carracci, G.M. Crespi e infine in Morandi, pittore monumentale e silenzioso, e al quale aveva dedicato pagine d’insuperato lirismo, fissandone nel tempo l’assoluta grandezza. Non è un caso che Michela Scolaro chiamasse spesso in causa le “famiglie spirituali”, un concetto tratto da Henry  Focillon e utilizzato nell’interpretazione del lavoro critico di Arcangeli, principio capace di spiegare le affinità espressive e di sensibilità tra uomini distanti nel tempo e nello spazio: ancora una volta, si trattava di un sentire comune, capace di trascendere epoche e confini per farsi forma ed espressione; ancora visionari eccentrici, dunque, amati da Focillon, da Arcangeli e dalla Scolaro. L’incontro con Arcangeli non è stato episodico nella sua formazione e nella sua vita professionale. A lei si devono, su incarico della Fondazione del Monte, le mostre e le pubblicazioni dedicate ai grandi maestri di area emiliana del Novecento, molti dei quali studiati e curati, promossi in passato proprio da Arcangeli e valorizzati e riproposti attraverso una serie di mostre e pubblicazioni da lei firmate e curate nei primi anni Duemila.  Infine, per chiudere questo breve testo che vuol essere un piccolissimo omaggio a una persona a cui devo moltissimo, sotto il profilo scientifico e personale, credo che qualsiasi scritto dedicato a Michela Scolaro debba far riferimento alla principale protagonista della sua formazione ovvero a una intellettuale raffinatissima come Franca Varignana, sua madre, nota storica dell’arte, operante a Bologna a partire dagli anni settanta. Avendo avuto occasione, anche recentemente, di leggere alcuni

Bologna-Portici, Via S. Felice

suoi scritti, è inevitabile notare le tante affinità che ricorrono tra queste studiose, individuabili nella struttura precisa, nel lessico sobrio ma brillante, nella sintassi cristallina, nelle modalità di ricerca argute e puntuali. A unirle – e non solo nella scrittura – rimane oggi la suggestione di un’eleganza diafana e senza tempo, manifestazione ultima e tenace di un pensiero che, portico dopo portico, passo dopo passo, si apre con sguardo lucido su spazialità che sono finalmente immense e prive di confini, proprio come quella sensibilità intellettuale e artistica che entrambe hanno posseduto e riversato nel lavoro di storiche dell’arte.

[1] Lettres sur le préjudice qu’occasionneroient aux arts et à al science, le déplacement des monumens de l’art de l’Italie, le démembrement de ses écoles, et la spolation de ses collections, galeries, musées, &c., dette sinteticamente « Lettres a Miranda », una raccolta di sette lettere indirizzate al generale Francisco de Miranda e pubblicate a Parigi nel 1796 con le sole iniziali del nome dell’autore.

 


VILLA LA QUIETE… L’OBLIAR MI GIOVA – di Morena Oro

Chiunque abbia un animo incline al romanticismo più decadente, non può che essere soggiogato dal fascino di Villa La Quiete a Treia, dalla sua travagliata storia legata indiscutibilmente alle vicende personali del suo più illustre proprietario, il conte Lavinio De’ Medici Spada.  Solo dal 2015, il sito è tornato in possesso della città di Treia, dopo che per molti anni, dalla morte del conte Lavinio, la proprietà è stata oggetto di numerose controversie legali, e solo recentemente recuperata da uno stato di completo degrado. Il comune di Treia si sta impegnando nel restaurare l’antico splendore della villa e restituire alla comunità un luogo magico e misterioso, impregnato di storia, cultura, profondamente legato alla dimensione del ricordo e al Genius loci, lo spirito dei luoghi, approfondito da Christian Norbert Schultz nel saggio del 1979: Genius Loci. Paesaggio Ambiente Architettura [1]. Nel suo celebre saggio, basilare per l’istituzione della fenomenologia dell’architettura, Schultz, architetto e teorico, richiamando un concetto sacro ai romani, che vedevano ogni luogo abitato da un’entità soprannaturale chiamata genius loci, indagava le relazioni tra architettura e ambiente e invitava a interpretare gli spazi nelle loro connotazioni multiple, affinché qualsiasi intervento sulla natura fosse rispettoso della sua identità e della sua essenza. Un edificio che si inserisce nell’ambiente, deve tener conto, secondo Schultz, della sua potenza trasformativa, dell’impatto – diremmo oggi-  sul territorio, e affinché questa interazione sia positiva e benefica, è necessario assumere uno sguardo d’insieme sul carattere del luogo, sulle vicende ad esso legate, sugli umori e le essenze che lo abitano. Un elemento architettonico può e deve modificare il paesaggio in rispondenza agli stati d’animo di chi lo ha abitato. Il genius loci finisce così per interpretare il carattere del luogo, l’insieme delle peculiarità che in esso si rapprendono, espresse attraverso opere materiali e immateriali, in relazione a situazioni e individui che lo plasmano attraverso un’azione storico-culturale che rende tale spazio riconoscibile dalla società ovvero luogo in cui gli uomini abitano, agiscono, vivono e muoiono, nell’insieme dei sentimenti e delle riflessioni che tutto ciò comporta.

Villa la Quiete, situata sulla sommità di una dolce altura a poca distanza dal centro storico della città di Treia, in contrada San Marco Vecchio, è una delle tante gemme architettoniche della regione disseminate fra le placide colline del maceratese e sicuramente una delle più imponenti ville monumentali dell’Ottocento neoclassico interamente progettata da Giuseppe Valadier e ritenuta il suo capolavoro artistico per l’arditezza nell’unire armoniosamente varie correnti architettoniche, la fantasia nel creare i diversi prospetti della villa ed anche della scuderia, l’ingegnosità nel trovare una soluzione naturale ed elegante al giardino”, con queste parole si esprime a tal proposito lo stesso Valadier. Stiamo parlando, per l’appunto, di un notevole complesso architettonico costituito da una serie di edifici all’interno di un parco storico che si estende per più di due ettari in un dedalo di sentieri e terrazzamenti affacciati direttamente sulla valle del fiume Potenza, con una veduta mozzafiato che si slarga dal mare Adriatico ai monti Sibillini. Una storia quella di Villa la Quiete lunga mille anni che vede in origine, almeno sin dal 1036, il terreno dove ora si estende, occupato da una chiesa dedicata a San Savino, probabilmente longobarda. La chiesa venne successivamente inglobata in un convento cappuccino edificato a partire dall’anno 1578 e quindi smantellato dalle campagne napoleoniche che diedero il via alla soppressione degli ordini religiosi, nel 1810. Nel 1828, la villa venne acquistata dal suo più noto proprietario, il conte Lavinio De’ Medici Spada che la scelse come sua dimora stanziale, nonostante le sue attività lo vedessero costretto a continui spostamenti fra Roma e Parigi. La ritenne il luogo ideale per potervi vivere in tutta serenità le sue innumerevoli passioni che finirono, nel corso del trentennio in cui lui la possedette, per determinarne la morfologia e lo sviluppo, plasmare il cosiddetto genius loci, per dirla nei termini di Schultz. Alla residenza storica Villa La Quiete, meglio nota ai treiesi come “Villa Spada”, si accede percorrendo un breve viale alberato, fuori dall’enorme cancello neo gotico che rinserra le colossali mura entro le quali è racchiuso il grande parco e l’intero complesso. Varcato l’imponente cancello, una coppia di propilei, sormontati da sculture ornamentali, trattengono come in una maestosa cornice la Casa del Giardiniere e sembra voler delimitare quasi uno spazio a parte rispetto al resto della tenuta. Tale severo e importante ingresso rappresenta un elemento architettonico rilevante del complesso architettonico. Definisce infatti a colpo d’occhio quello che è l’atrio paesaggistico della Villa che si compone di tre viali convergenti verso una rotonda, oltre la quale è posta l’area di pertinenza della Casa di Villa, cioè il cuore di tutti gli spazi.  Dalla Casa di Villa, lungo gli snodi principali dei sentieri che segnano il bosco cappuccino come un labirinto, si incontrano un gazebo neogotico e un padiglione neo egizio con una serie di fontane e giardini, nonché riferimenti simbolici di quello che poteva essere un intimo linguaggio di comunicazione del conte con quei luoghi a lui tanto cari.

Il conte Lavinio fu un personaggio di spicco del Risorgimento italiano, coinvolto in molte delle vicende politiche e storiche di primo piano. Studioso di lettere, poeta e scrittore, nonché uomo di scienza, appassionato di botanica, fu un mineralista di fama, come conferma un minerale a lui attestato: la spadaite. Secondogenito del conte Girolamo Spada e di Giulia de’ Medici, nacque a Macerata nel 1801. Il padre, membro dell’“Accademia Georgica”[2] e autore di trattati sulla coltivazione dell’erba medica e dei bachi da seta, gli tramandò l’interesse per le scienze e la botanica; la madre, ascritta all’Accademia dei Catenati[3], gli infuse invece la passione per le lettere. Come consuetudine prevedeva per i nobili privi dei diritti di primogenitura, a Roma, Lavinio si iscrisse all’Accademia Ecclesiastica, acquisendo in breve tempo il titolo di prelato, concessogli da papa Leone XII. Venne così destinato a Ravenna, come prolegato e, proprio a questa città, il conte consegna una delle sue opere più importanti che gli valse un’epigrafe e un busto in quanto fondatore dell’Accademia di Belle Arti, che collocò proprio a Ravenna, avviandola in soli quattro mesi con l’architettura di Ignazio Sarti Bolognese.  Lavinio De’ Medici Spada dimostrò sempre, tuttavia, scarso interesse per la vita ecclesiastica che pure lo compensò notevolmente con incarichi di prestigio; a testimonianza del conflitto che vigeva tra le sue idee personali e il suo ruolo professionale, fu sempre contrario alla pena di morte nella Roma papale incarnata dalla figura del carnefice marchigiano “Mastro Titta”, nonostante fosse il prefetto delle armi di Gregorio XVI e successivamente il presidente delle armi di Pio IX. Non prese mai gli ordini e nel 1848 abbandonò definitivamente la prelatura per sposarsi con la contessa Natalia Komar, nobile polacca, per ritirarsi definitivamente con lei nella sua villa treiese. In questo luogo che aveva egli stesso denominato “mia diletta Quiete”, si dedicò intensamente alla definizione di una dimensione ideale che fosse più di una dimora, ma divenisse esemplificazione di un sogno dove dare forma all’amore per Natalia e alle proprie aspirazioni. La famiglia Komar aveva sempre vissuto fra Parigi e l’Italia e il suo membro più noto fu la sorella di Natalia, Delphine Komar, a cui Friedrich Chopin, che impartì diverse lezioni di piano alla contessa Spada, dedicò la sua opera Piano Concerto n.2 Op. 21, nonché la prima esecuzione di altre sue opere famose tra cui il Valzer in Do diesis n. 2 Op. 64. Negli anni in cui fu sposato con Natalia, Lavinio potenziò le sue coltivazioni negli spazi della serra e degli orti, implementò notevolmente gli alberi in tutto il parco che divenne un vero e proprio giardino botanico dove erano presenti oltre diecimila specie floreali e arboree diverse, fra le quali si distinguevano Fuchsie, Begonie e Camelie appartenenti a famiglie mai avute in Italia. Nel 1854 il giardiniere di allora, Raffaele Amicucci, catalogò la grandissima varietà botanica della Villa, che comprendeva specie provenienti dall’America, dall’Asia e dall’india, in una pubblicazione intitolata Catalogo delle piante che si coltivano nel giardino del Conte de’ medici Spada a Villa Quiete presso Treia [4].  Negli spazi interni della Villa, il conte collezionò e catalogò diverse raccolte che, messe insieme nell’arco di una vita, comprendevano quelle di interesse scientifico come la mineralogia (donata poi all’Università la Sapienza di Roma) e quelle di oggetti d’arte, costituite da vasi provenienti dal Giappone, lavori d’intaglio, antiche stoviglie e quadri di valenti maestri, nonché marmi e molto altro.

Nel 1859, una tragedia improvvisa devastò la quiete di quel luogo che tanto appassionatamente si era ritagliato, con il sopraggiungere della morte dell’amatissima moglie Natalia. La perdita non accettata intaccò profondamente il carattere del conte che impazzì di dolore e chiuse i rapporti  con tutti, facendo erigere intorno alla villa poderosissime mura che lo separassero dal mondo intero. Stravolse il senso di quegli spazi vitali che iniziò a vivere come riverbero straziante della mancanza della moglie. La Villa e il parco divennero così un mausoleo alla sua memoria, luoghi deputati alla celebrazione del suo ricordo, poiché ogni scorcio, ogni angolo dei panorami sconfinati che circondavano quella collina parlavano di lei e amplificavano il dolore per quel distacco impensabile. Il conte espresse la sua tragedia e il suo tormento agendo sull’architettura del complesso, sulle sommità degli imponenti propilei all’ingresso dove vennero istallate due enormi colonne spezzate, simboleggianti la morte e la perdita irrimediabile insieme a una grande urna cineraria in muratura sagomata. Fece realizzare, sempre all’interno della villa, anche un piccolo ma pregevole Pantheon per la  commemorazione di Natalia: un giro di otto colonne con capitelli ionici a sostegno di una cupola a sesto ribassato e decorata con motivi a lacunari decrescenti. Dicono le cronache, che il conte vi sistemò una statua del Tenerani, riproduzione marmorea della soave bellezza della donna amata, ma oggi della statua non ve ne è più traccia. Lavinio volle, sempre per mano del Tenerani, che il viso di Natalia fosse eternato anche sul monumento sepolcrale nella chiesa della Minerva a Roma. Altri oggetti ed effetti personali appartenuti alla moglie furono gelosamente conservati in una stanza all’interno della villa. Prima della morte della consorte, il Conte Lavinio De Medici Spada fu uno scrittore di versi prolifico e instancabile, poeta lodato da Vincenzo Monti, amico di Leopardi, ma l’incolmabile vuoto lasciato dalla moglie gli rese impossibile sopportare il fardello della propria produzione poetica,  che raccontava di una felicità per sempre perduta, tanto da bruciare in un rogo tutta la sua produzione a lei dedicata.

Fu Alcibade Moretti a salvare dalle fiamme alcuni stralci dei poemi che pubblicò nel 1881 nel libro Versi inediti di Lavinio de’ Medici Spada, preceduto da un’esaustiva biografia sempre scritta di suo pugno. Il conte morì nel 1864 e la villa fu venduta dagli eredi. Con lui si addormentò anche lo spirito di quei luoghi che divennero spazi di abbandono e degrado, conseguenza di oltre 150 anni di usi impropri e incurie. Il 6 giugno 1940, quando erano divenuti proprietari i conti Vannutelli, fu aperto nella villa un campo di internamento femminile. Fra il 1943 e il 1944, prima della liberazione dai nazifascisti, fu luogo di prigionia per gli ascari della PAI (Polizia Africa Italiana). Dal 1960 al 1980 Villa La Quiete venne utilizzata come Scuola dell’Infanzia, poi lasciata in stato di abbandono e alla mercé di erbacce e rovi che ne hanno ricoperto l’area fino al 2015, quando la città di Treia ne è tornata in possesso.

Con il decreto “Art Bonus”, oggi, il Comune della città può avvalersi di uno strumento concreto per ridare vita a questo grandioso patrimonio culturale e tassello storico di notevole interesse per la nostra regione, attraverso le donazioni effettuate dai privati cittadini, che possono contare su una detrazione fiscale del 65% sull’importo donato. Sull’affresco della volta a vela che copre la parte terminale sud della loggia, si leggono questi versi scritti da Lavinio, rivolti a un luogo percepito come complemento ed estensione di chi lo abita, il cui spirito è destinato a permearlo nei tempi:

L’obliar mi giova beata solitudo lasci dir le genti sola beatitudo.

E il Genius loci, imperterrito, continui a dir a tutte le genti che sola beatitudo fu la Bellezza.

 

NOTE

[1] Genius Loci. Paesaggio Ambiente Architettura di Christian Norberg Schultz, Mondadori Electa, 1979

[2] L’accademia Georgica è un’accademia italiana di nobili intellettuali mossi da passione umanistica e poetica, dediti alla “incantatrice arte di Apollo”, fondata nel 1430 a Treia per volere di Bartolomeo Vignati, erudito scrittore apostolico. Questi nobili letterati decisero di chiamarsi Sollevati e come stemma scelsero un logo che rappresentava una leggiadra nuvoletta attratta dal sole, simbolo della soavità e sublimità dei loro componimenti poetici. L’Accademia ebbe la sua maggior fecondità nel periodo dell’Illuminismo e nel 1778, a seguito della grave crisi economica che investì tutta l’Europa, alcuni intellettuali innovatori appassionati di agronomia, decisero di trasformare l’Accademia Georgica in un centro per lo studio e la sperimentazione in Agricoltura, considerata una valida risposta alle problematiche legate alla crisi. L’Accademia Georgica ha tutt’oggi sede nella prestigiosa palazzina ottocentesca disegnata dall’architetto Giuseppe Valadier e fa corona alla Piazza principale della città.

[3] L’Accademia dei Catenati venne fondata nel 1574 a Macerata da Gerolamo Zoppio, professore di poetica, retorica e filosofia morale nell’Università di Macerata. Il suo obiettivo era quello di far rinascere la cultura nell’Italia centrale, promosse lo studio delle belle arti, della letteratura e del pensiero scientifico. Il nome “Catenati” deriva dall’immagine della “Cathena d’oro distesa dal cielo alla terra” descritta da Omero nel libro VIII dell’Iliade e venne raffigurata nel logo dell’Accademia come simbolo della congiunzione fra le cose umane e quelle celesti, la catena intesa anche come rappresentazione, attraverso gli anelli che la compongono, dei diversi gradi di elevazione culturale e morale dell’uomo. La pinacoteca di Palazzo Bonaccorsi a Macerata dedica oggi una delle sue più belle e visitate sale all’Accademia dei Catenati. Stupendi sono i cinquanta stemmi  accademici originari esposti che si riferiscono ai letterati e ai nobili che la fondarono, i quali vollero aggiungere curiosamente anche il loro soprannome, pratica a quei tempi, quella dei soprannomi, molto diffusa nel territorio marchigiano.

[4] Catalogo generale delle piante che si coltivano nel giardino del Conte De Medici Spada a Villa Quiete presso Treia nelle Marche, Tipografia Tibertina, Roma De Medici Spada L., 1858

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Il “Festival Mugellini” è un omaggio alla figura del grande compositore e noto concertista Bruno Mugellini (Potenza Picena 1871 – Bologna 1912). Nato a Potenza Picena nel 2016 è oggi al suo secondo anno di vita e già si profila come uno degli appuntamenti più attesi della stagione culturale.

BRUNO MUGELLINI – di Niccolò Rizzi

Potrebbe stupire, in un Blog dedicato a promuovere la cultura marchigiana mediante i suoi molti artisti attraverso il tempo, ritrovarsi a parlare di un Festival di musica classica che ha ospitato nel suo concerto d’apertura una pianista russa, e nel quale risuonano le note di Sergej Rachmaninov e Maurice Ravel, o di Robert Schumann e Sergej Prokofjev. Eppure il Mugellini Festival, che quest’anno sboccia in Potenza Picena con la sua seconda edizione, si riconferma non solo come un’occasione preziosa per riascoltare e godere della migliore tradizione musicale europea, ma anche per la costante volontà di omaggiare una figura, come quella del M° Bruno Mugellini, che è stata al contempo grande protagonista della vivacità culturale italiana tra Otto e Novecento così come autorevolmente riconosciuta all’estero, in Europa e oltre oceano.

Nato proprio a Potenza Picena il 24 dicembre 1871, pianista precoce, anzi precocissimo, Bruno Mugellini si esibì in pubblico per la prima volta a undici anni. A Bologna studiò pianoforte con Gustavo Tofano e per pochi mesi con Giuseppe Martucci. Nel 1893 divenne egli stesso docente al Liceo musicale bolognese, dove per diciotto anni insegnò pianoforte. Dopo un primo concerto nel 1889, presso la Società del Quartetto di Bologna, Mugellini si dedicò con successo a una carriera concertistica in Italia e nelle principali città europee, sia come pianista solista che come componente di un quintetto da lui fondato, che prese appunto il nome di ‘Quintetto Mugellini’. Proprio nel prossimo concerto di domenica 29 ottobre, a Potenza Picena, Lorenzo Di Bella e la neonata ‘Mugellini Ensemble’ proporranno al pubblico il Quintetto per pianoforte ed archi del maestro potentino, che è una vera rarità poter ascoltare oggi in concerto.

Affermatosi ben presto come compositore (nel 1895 vinse il ‘Concorso della Società orchestrale’ del Teatro alla Scala di Milano), scrisse pagine per pianoforte, musica corale e musica da camera, tra cui si ricordano una Sonata per violoncello e pianoforte ed appunto un Quintetto per archi con pianoforte, di chiara ispirazione brahmsiana. La sua arte fu chiaramente figlia della profonda eredità del Romanticismo europeo (tedesco  e francese) ma seppe anche armonizzarsi al contempo ad una qualità tutta italiana che si ritrova in una sua particolare eleganza di scrittura e in un’attenzione vocale per la scrittura strumentale. Del resto non è il solo grande italiano di quegli anni che meriterebbe finalmente d’esser rivisitato, con curiosità e cura, da esecutori moderni. Un libro, Bruno Mugellini musicista (vita, luoghi, opere), è riuscito l’anno scorso a dare le prime risposte ad un imbarazzante vuoto editoriale circa questo notevole musicista. Uscito l’anno scorso per i tipi di Andrea Livi, in Fermo, il volume è stato presentato dai suoi autori proprio durante la prima edizione del Festival.

Valente compositore e notevole pianista, non è però possibile ricordare Bruno Mugellini dimenticandosi della sua esemplare attività di curatore: le sue molte revisioni di opere di Johann S. Bach, Wolfgang Amadeus Mozart e Muzio Clementi sono raccolte in edizioni tutt’oggi in uso presso i Conservatori di mezza Italia e non solo. Giovani concertisti di Ancona o Lugano, di Napoli o Parigi, di Milano o S. Pietroburgo hanno studiato su testi frutto della sua profonda conoscenza dello strumento e del suo amore per i grandi classici del nostro passato. L’attenzione che il Mugellini Festival anche quest’anno ha riservato alle migliori leve tra le nuove generazioni di musicisti del nostro territorio vuole tradursi così in un atto di riconoscenza per un artista che fece anche della didattica un momento importante e prezioso della propria carriera. Dopo aver attraversato da protagonista il primo decennio del secolo, Mugellini venne nominato direttore del Liceo musicale bolognese (tra le migliori realtà di formazione musicale del tempo), la morte però lo stroncò l’anno seguente, il 15 gennaio 1912, a soli 41 anni e nel pieno del suo vigore creativo. È sepolto a Fossombrone.

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IL FESTIVAL MUGELLINI – di Mauro Mazziero

Il Mugellini Festival è un’idea. Un esperimento. Se volete, un’utopia. Non è solamente un susseguirsi di appuntamenti musicali, è un viaggio nel Bello. Il Festival nasce nel 2015, dall’ingresso fortuito del maestro Lorenzo Di Bella nella Cappella della Congrega dei Contadini a Potenza Picena. «Mai ho provato una suggestione tanto forte come la prima volta che sono entrato nella Cappella dei Contadini. Qui è nato il Mugellini Festival. Non conosco altro luogo capace di creare per la Musica una migliore intimità». Da qui in avanti tutto fu costruito con naturalezza, sulla solida base dell’amicizia tra il maestro e Mauro Mazziero, poliedrico artista potentino.  Dalla loro complicità artistica nasce un Festival dove arte e musica dialogano in costante rapporto e reciproco rispetto. Dopo una prima edizione, nel 2016, caratterizzata da un grande successo di pubblico e di critica, quest’anno il MuFe si presenta cresciuto, per numero di appuntamenti e forze interne. Il suo staff si rafforza con l’inserimento stabile del consulente musicologo, il giovane milanese Nicolò Rizzi, capace di trasformare in parole i contenuti velati dei programmi musicali. Il calendario si arricchisce dello spazio “Gli Amici del MuFe”: una parentesi di espressione, dove saranno di anno in anno accolti ed ospitati i tanti amici della manifestazione, che condividono la mission del Festival. Gradito ospite, quest’anno, Mogòl. E poi gli appuntamenti concertistici, quest’anno uniti dal fil rouge dell’anniversario della rivoluzione russa ( da qui il patrocinio concesso dal Consolato Onorario Russo in Ancona): si inizia con il concerto di apertura, domenica 1 ottobre, con la “Rac star” ( così la definisce il Washington Post) Sof’jaGulyak, domenica 15 spazio ai giovani con Martina Giordani, e chiusura domenica 29 con un omaggio a Bruno Mugellini tessuto da Lorenzo Di Bella accompagnato dal Mugellini Ensemble, nuova formazione nata da elementi provenienti dall’Orchestra Filarmonica Marchigiana. E poi un premio dedicato a Bruno Mugellini,consegnato a Sof’jaGulyak e a Eugenio De Signoribus, e poi un concerto straordinario per celebrare il ventennale dell’associazione potentina “Gli Amici della Musica”. Tanto altro sarebbe da aggiungere, da approfondire, da scoprire. Non mi resta che indicarvi il sito internet della manifestazione www.mugellinifestival.it per scoprire ciò che qui non è possibile aggiungere e darvi appuntamento ai prossimi concerti. Buon ascolto dunque, e buon viaggio nel Bello.