26/02/2018

PICENI – POPOLO GUERRIERO DELL’ITALIA DI MEZZO – di Marco Corriàs

By artedellamarca

«I Piceni sono giunti qui dalla Sabina, sotto la guida di un picchio che indicò il cammino ai capostipiti. Da ciò deriva il loro nome: essi infatti chiamano “picus” quest’uccello, e lo ritengono sacro a Marte.» (Strabone. Geografia, 5,4,2).

La storiografica antica vuole che l’epopea dei Piceni, popolo attualmente messo in luce più dai preziosi ritrovamenti archeologici che dagli studi tradizionali, fosse inaugurata in tempi remoti sulla scia di ondate migratorie, cicliche e ritualizzate, conosciute con il nome di “Primavere Sacre”:  spedizioni militari le cui origini discendono da un retaggio culturale indoeuropeo tanto arcaico, quanto condiviso da numerosi popoli del passato[1]. Sotto la guida di sciamani, abili interpreti dei fenomeni naturali, in tempi remoti nuclei famigliari consacrati agli dei si spinsero alla colonizzazione di terre lontane.[2] É remoto il tempo in cui, dall’età del Bronzo (3.300 – 1200 a.C) mutamenti climatici e altre circostanze avverse, credibilmente, costrinsero intere tribù di origine osco-umbra, forse ascrivibili al popolo dei sabini, a spostarsi da un entroterra appenninico divenuto gelido e improduttivo verso est. La scoperta di uno spazio geografico fertile definibile come “medio Adriatico”, sito in prossimità dei valichi montani più battuti e di un mare ricco di risorse e relativamente calmo, a più riprese spinse il “Popolo del Picchio” verso la sua terra promessa: ampio spazio geografico circoscritto tra i fiumi Foglia (Pesaro) e Aterno (Pescara), delimitato ad ovest dall’Appennino e bagnato a est dalle coste adriatiche, il territorio definito “piceno” comprendeva non solo le odierne Marche, bensì anche l’Abruzzo settentrionale.[3] L’occupazione delle nuove terre e la convivenza tra numerosi popoli, suddivisi per clan e distinti dal punto di vista linguistico, etnico e culturale non dovette essere facile.[4]

Piceni: “Pikenes”“Pikenói” (cit. Tolomeo). Un insieme di popoli accomunati dalla stessa koiné (tratti culturali condivisi) che, dopo aver occupato il medio Adriatico, diedero vita a numerosi centri organizzati su base tribale: centri che,  pur costituendo all’occorrenza compagini confederate, non giunsero mai a costituire un’unità culturale, tanto meno una vera capitale.[5] Dall’VIII secolo a.C. in poi siti maggiori come Ancona, Numana, Novilara, Porto Sant’Elpidio e Cupramarittima, posti nelle Marche settentrionali e prevalentemente nei pressi del mare, protetti dalle incursioni piratesche e dalle paludi malariche, sfruttavano approdi sicuri. Nell’entroterra, a ridosso dei valichi appenninici sorgevano Fabriano, San Severino Marche e Serravalle. Queste popolazioni guerriere d’origine appenninica portarono con sé antiche tradizioni religiose di stampo matriarcale, a cui sarebbero rimaste fedeli fino all’inevitabile sovrapposizione e assorbimento entro il pantheon greco-romano.[6]

I Piceni, come i Celti, usavano celebrare i loro dei in comunità, in spazi ap erti: la presenza di luoghi di culto è testimoniata dal ritrovamento di depositi votivi presso boschi sacri, cime montuose, sorgenti, grotte e laghi. Nell’area dell’attuale cittadina balneare di CupraMarittima sorgeva un importante santuario, tra i più antichi depositi votivi delle Marche: quivi, dove i fedeli depositavano statuine bronzee e lignee raffiguranti offerenti e dei, collanine composte da parti anatomiche in argilla ad uso di ex voto si adorava Cupra, dea madre umbra e picena, protettrice dei raccolti dai flagelli della natura. La dea Angizia, anch’essa legata ai culti matriarcali neolitici, era venerata in un santuario situato in un bosco sacro presso le rive del lago Fucino; Cutilia, dea della guerra, era omaggiata su un’isoletta galleggiante.[7] A proposito di sciamanesimo, un’attenzione tutta particolare va dedicata al coperchio bronzeo da san Severino Marche: spazio digradante di forma circolare, con un palo totemico al centro, teste di animali a sporgere e tutt’attorno quattro guerrieri itifallici danzanti. Muniti di lance, archi, scudi ed elmi greci dai lunghi cimieri, status symbol da ostentare, le figurine fluttuano in una danza estatica, quasi tribale. Uno di essi, armato soltanto di un pugnale, solleva le braccia all’indirizzo del totem. È lui lo sciamano, propiziatore del rituale: una danza di guerra. L’epopea dei Piceni, ripartita dagli studiosi in sette fasi archeologiche tra il 900 al 268 a.C., visse la sua età dell’oro tra la metà dell’VIII e la fine del VI. Proprio questo lasso di tempo, che per certe culture d’ambito settentrionale (Golasecca) è classificato senza soluzione di continuità come “Età del Ferro”, nel caso dei popoli italici è chiamata “Età Orientalizzante”. Solo allora, quello che in origine era stato un popolo tra tanti parve predestinato al dominio sull’Italia centro orientale, nel nome del culto degli antenati e della guerra[8].

Guerra: come nel caso dei popoli celto-liguri stanziati a cavallo tra Alpi e pianura Padana, dovette trattarsi più di una sorta di guerriglia tribale, caratterizzata da brevi incursioni, scontri rituali e imboscate aventi come scopo il dominio sulle terre conquistate e l’imposizione di pedaggi lungo i valichi di propria pertinenza. Osservando i caratteri di una cultura che impiegava la scrittura saltuariamente, lo studio delle necropoli al fine di ricostruire usi e costumi del passato riveste un ruolo fondamentale. La memoria degli antenati, guerrieri eroicizzati che tra l’VIII e il VI secolo fecero la fortuna dei clan più importanti, era esaltata da grandi sepolture colme di ricchi corredi in bronzo qualificati da uno spiccato gusto estetico e decorativo: spade, schinieri anatomici ed elmi di svariato genere per gli uomini; pendagli – pettorali, armille, monili, fibule, collane d’ambra e orecchini di conchiglia per le donne.

Il decoro degli oggetti rinvenuti nei corredi funerari piceni ostenta numerosi simboli, portatori di valenze religiose e apotropaiche. Il motivo più ricorrente è quello ad anatrelle: i volatili, intermediari tra cielo e terra, si presentano come sagome stilizzate, aggettanti su vasi ceramici e su pettorali in lamina di bronzo. A questi oggetti preziosi, il cui significato affonda nel cuore dell’età del Bronzo danubiana e centro europea, si assommano tipiche forme ceramiche locali come tazze biansate, a tre braccia e prodotti d’importazione: situle bronzee di manifattura etrusca, veneta e pissidi in avorio di provenienza mediorientale delineano chiari indizi, fondamentali per la comprensione di uno stile di vita sociale privilegiato, attribuibile a un’aristocrazia di stampo principesco. Questo periodo, caratterizzato dallo sviluppo della metallurgia, attestò uno slittamento dei Piceni verso nord, dove il ritrovamento più importante è quello della necropoli di Novilara.

«Quando respiro e vita lo avranno lasciato, manda Thanatos con il dolce Hypnos, che lo portino in Licia: nel grande paese dove famigliari e amici gli renderanno l’onore della tomba e della stele: perché questo è il privilegio dei morti» (Iliade, 16, 458).

Il ruolo di spicco occupato dalla guerra nell’ambito culturale piceno traspare non solo dalla tipologia degli oggetti deposti, ma anche dal manifestarsi di forme di scultura in pietra di grandi dimensioni: il potere ipnotico della testa del guerriero di Numana, piuttosto che la descrizione minuta e realistica della celebre statua conosciuta come “il guerriero di Capestrano”, dall’armamento da parata elaborato e prestigioso, insieme all’epigrafe incisa sul retro.[9] L’anatomia del guerriero, pur non definita come nei coevi kouroi greci, è curatissima nei dettagli del kardiophylax, del cinturone e degli schinieri a proteggere, rispettivamente, petto, ventre e gambe, e con copricapo a disco ad alludere forse ad un elmo da parata[10]. Il tutto tende a sottolineare il rango, nonché l’autocoscienza del personaggio immortalato. Proprio nel periodo di massima floridezza, tra il VII e il VI secolo a.C i Piceni adottarono la scrittura tramite un alfabeto greco mediato dagli Etruschi. L’alfabeto sud piceno è una denominazione convenzionale data a un gruppo di iscrizioni dedicatorie e celebrative databili tra il VI e III secolo, incise su stele e cippi in un’area compresa tra il corso dei fiumi Chienti a nord e Sangro a sud. Le epigrafi su pietra, riportanti il nome dei defunto e alcune notizie del clan di appartenenza, tramandano pochi ma preziosi concetti. Lo sviluppo della scrittura ebbe ruolo fondamentale nel favorire le attività commerciali e organizzare la vita nei primi centri urbani[11].

PICENI, CELTI, ETRUSCHI: METALLURGIA E ARTE DELLA GUERRA

Dal V secolo l’influsso dei coloni greci ampliò gli orizzonti commerciali e culturali dei Piceni; dal IV secolo, il contatto diretto con le tribù galliche calate da nord portò nuovi sviluppi dal punto di vista dell’arte della metallurgia legata alla guerra. Eppure, proprio a partire da questa fase, detta “greco-ellenistica”, per i Piceni ebbe inizio il periodo della crisi e della decadenza: essa maturò con la spinta colonizzatrice dei Romani nei quali, inizialmente, i Piceni trovarono dei validi alleati contro le tribù avversarie: nel 295 a.C la battaglia di Sentinum (presso Sassoferrato) portò le legioni romane, sostenute dai Piceni e dai Lucani, alla vittoria sulla “Lega Italica” costituita da Galli, Umbri, Sanniti ed Etruschi. Alla vittoria seguì l’annessione a Roma dell’Italia centrale; fatta eccezione per le città alleate Ancona, divenuta colonia greca, e per Asculum, (l’odierna Ascoli Piceno), nuovo centro di riferimento piceno, tutto il territorio fu annesso dai Romani che vi fondarono numerose colonie tra cui Hatria, Firmum Picenum (Fermo), Castrum Novum Piceni (presso Giulianova), Potentia (Potenza Picena) e Auximum (Osimo). La tardiva rivolta degli ascolani (268-8 a.C) portò alla violenta sottomissione e deportazione in massa delle popolazioni picene verso la Campania: di conseguenza, l’area compresa tra Salerno e il fiume Sele avrebbe preso il nome di “Ager Picentinus”: formalmente, la storia dei Piceni termina qui. Cessate le ostilità, con il declino del mondo etrusco e la perdita d’importanza dell’aristocrazia guerriera di stampo arcaico, nuove categorie sociali di mercanti e artigiani del sud Piceno si avviavano ad acquisire un peso economico sempre maggiore all’interno del sistema burocratico romano. L’ultima scintilla d’orgoglio di questo grande popolo sulla via del tramonto prese fuoco in occasione del rifiuto di assegnare ai federati italici il diritto di cittadinanza romana; il teatro dei disordini fu proprio il foro di Ascoli, dove nel 91 a.C. il massacro di un pretore, di un legato e di tutti i Romani residenti in città portò alla creazione di una nuova e massiccia coalizione tra Piceni, Sanniti, Irpini, Lucani, Vestini, Marrucini, Peligni e Frentani: la “Guerra Sociale”, detta anche “Guerra Italica”, ebbe inizio. Dopo sei mesi di successi da parte della coalizione, Roma concesse la cittadinanza agli italici che non si erano ribellati e a quelli che avrebbero deposto le armi. Nonostante la guerra di protraesse per altri due anni, infine i Romani dovettero concedere la cittadinanza ai popoli ribelli.

Nella regione coincidente con la presenza della cultura picena, tra Marche e Abruzzo, i depositi minerari sono di scarsa entità. Eppure, pur essendo l’area adriatica praticamente priva di risorse minerarie, essa ha restituito alcune tra le più antiche produzioni metallurgiche nella Penisola: l’esistenza di officine fusorie per la produzione di manufatti di bronzo è già attesta a partire dall’Età del Bronzo Medio (1500-1200 a.C.); tuttavia fu la notevole vitalità dell’industria metallurgica etrusca a tramandare a quest’area la diffusione e circolazione del metallo.

Necropoli di Fossa (L’Aquila) – Età del Ferro

Il costume di deporre armi di difesa, in particolare elmi, nelle tombe dell’aristocrazia guerriera, fece la sua comparsa in Italia a partire dal IX sec a.C. La si ritrova dapprima in Etruria, dalle sepolture di guerrieri di cultura villanoviana fino ai corredi d’età orientalizzante (VII sec a.C). Queste tipologie servirono da imprescindibile modello per le tribù picene stanziatesi nella fascia adriatica dell’Italia centrale: proprio nel VII secolo fece la sua comparsa una tipologia di elmi a calotta composita, di tipo italico, che dal centro della Penisola si diffusero verso nord, fino in Lombardia (civiltà celto-ligure di Golasecca) e nell’area alpina orientale (civiltà paleoveneta): ed ecco che possiamo vedere come i metallurghi piceni svolgessero un ruolo di mediazione tra la raffinata cultura etrusca e le tribù celtiche d’area alpina, con particolare rilievo della cultura celtica di Halstatt.[12] Nel complesso bisogna sottolineare che, nonostante la vicinanza con le colonie magnogreche, i guerrieri piceni preferirono scegliere i loro modelli di corredo militare più tra quelli etruschi e celtici: non a caso, in Piceno non si praticava solo l’esportazione di elmi verso nord, bensì anche l’importazione: tra i modelli più apprezzati provenienti dall’area halstattiana si ricorda l’elmo a tesa, di “tipo Negau”, con calotta ad unica lamina, dal nome del sito sloveno che li rese noti: più affusolati, meno penetrabili e tali da deviare i colpi più facilmente, gli elmi “Negau” entrarono molto presto a far parte dell’armamento standard etrusco ed italico, anche nelle varianti “Belmonte”, “Volterra” e “Vetulonia”, con borchie semisferiche, corna stilizzate aderenti alla calotta e perfino motivi decorativi, finemente incisi. Anche le armi da offesa, come le spade corte ad antenne, che poi tesero ad allungarsi, rivelano scambi e contatti profondi con le culture d’area alpina: tipica, poi, la consuetudine di piegare la lama per renderla inservibile e dedicarla ad eroi caduto o agli dei, per gettarla in uno specchio d’acqua consacrato. Le lame si evolvono, assumono la lunghezza di quasi due piedi, diventano bi-taglienti: la tendenza a colpi ampi e di fendente si conferma con l’adozione della “machaira”: pesante spada in ferro a lama arcuata, contraddistinta fino in punta da una forte costolatura. Con le nuove invasioni, dal IV secolo la panoplia picena sarà quasi completamente influenzata da quella gallica: significativa è la tipologia d’elmo con spigolo sommitale, paranuca e paraguance mobili di forma trilobata (Tipo Montefortino, Arcevia): una tipologia presto diffusissima, presto adottata in pianta stabile dall’esercito romano con il nome di elmo “gallo – romano”.

Elmi Negau da Montelparo, Montepenna (Ancona), corredo piceno dal castello di Offagna e tipologia elmo Negau originaria (Zagreb, Arheološki muzej)

PICENI E GRECI: NAVIGAZIONE E COMMERCI

Già dall’VIII sec a.C i Greci dell’Eubea conoscevano bene l’Adriatico, tanto da fondarvi una serie di empori. La stele figurata di Novilara, databile alla seconda metà del VI sec a.C, testimonia la penetrazione commerciale greca in Adriatico fin dalla e la crisi dei rapporti tra le due sponde marittime: i popoli rivieraschi dovettero scegliere se trasformarsi, come gli Illiri, in pirati, o come i Piceni, in alleati dei Greci. L’abitato di Novilara era situato proprio sulla grande rotta battuta dai Greci diretti agli empori del delta del Po. Sulla stele di Novilara una snella imbarcazione da guerra picena scorta e difende una nave oneraria greca (ossia da carico) in fuga, piazzandosi di fronte a una terza imbarcazione: si tratta di un vascello pirata, probabilmente illirico. In questo modo, sulla pietra, il “principe – navarca di Novilara” ha immortalato la sua impresa presso i posteri. Nel frattempo, sulla terraferma i Piceni avevano introdotto anche la panoplia, ossia il corredo degli opliti greci: un fenomeno che, pur attestandosi precocemente, a partire dalla metà de VII sec a.C, non sembrò influire significativamente sulla tattica militare, o con eventuali implicazioni di carattere socio-politico diverse dalle summenzionate esigenze di ostentazione di prestigio, tipiche delle élites guerriere. D’altra parte ricordiamo che proprio a partire da questa fase, detta “greco-ellenistica”, per i Piceni ebbe inizio la fase della crisi e della decadenza. Se le invasioni di campo nel medio Adriatico da parte dei temuti e barbarici Galli, mitizzati quanto demonizzati dalla letteratura classica come ferini e bestiali, furono essenzialmente e proprio come i Piceni “entità migranti in cerca di una nuova patria”, non si può dire lo stesso per i greci e i romani, le cui culture portarono con sé dapprima i germi del colonialismo e della talassocrazia, infine dell’imperialismo più atroce e livellante.

 

BIBLIOGRAFIA

AA.VV, I Piceni. Popolo d’Europa. Ed. De Luca, 1999

AA.VV, Eroi e Regine. Piceni popolo d’Europa. Editore de Luca, 2001

Antonelli. I Piceni. Da “Genti e province d’Italia” nr.3,  L’Erma di Bretschneider, 2003.Canestrelli, i Celti e l’arte della guerra , Il Cerchio, 2010.

Cappelli, G. Vico, I Piceni. Il primo millennio a.C tra i fiumi Foglia e Sangro. La Musa, 2014.

Carfagna. I Piceni. Capponi editore, 2016.

Franchi dell’Orto, Il guerriero di Capestrano e le iscrizioni paleosabelliche, in «Pinna Vestinorum e il popolo dei Vestini». L’Erma di Bretschneider 2011.

Naso, I Piceni. Storia e archeologia delle Marche in epoca preromana. Longanesi, 2000.

NOTE

[1] Con il termine “Primavera Sacra” (“Ver Sacrum” in latino) ci si riferisce a una serie processi migratori praticati da svariati popoli indoeuropei, in particolare italici e celtici e messi in pratica in veste di ricorrenze rituali: spostamenti di massa che, soprattutto in occasione di periodi di crisi, sovrappopolamento e carestie, portarono alla fondazione di nuove colonie.

[2] Nel corso delle primavere sacre si effettuavano sacrifici: quelli animali, a scopo beneaugurante e quelli “umani”, a mero scopo simbolico: sacrificare, in questo caso, voleva dire allevare ed educare i primogeniti di una data generazione  e, in attesa della maggiore età, consacrare la loro missione agli dei. A quel punto venivano fatti emigrare altrove allo scopo di fondare nuove comunità (dette “toutas”: termine di origine celtico che significa “tribù”, “clan” o più semplicemente “popolo”). In questo modo nasceva una nuova comunità.

[3] La migrazione era sempre guidata da  animali-guida totemici, dei quali si usava interpretare i comportamenti per trarne auspici e indicazioni sulla direzione del viaggio. Ogni nuova “touta” era guidata da un animale simbolico: se per i Celti fu il cinghiale, per i Sanniti era il toro; per gli Umbri la ghiandaia e per i Piceni il picchio.

[4] Da sud spingeva il gruppo degli Iapigi che includeva i Messapi, i Peucezi e i Dauni; la compagine dei sabellici, invece, a nord inglobava i Frentani, i Marrucini, i Vestini, i Pretuzi…e i Piceni. Questi ultimi pare costituissero l’entità culturale più consistente e definita del proprio gruppo di riferimento.

[5] Non solo, ma anche “Peuketetieis” da cui picentini (cit. Strabone). Questi stessi popoli, alludono le iscrizioni di Penna Sant’Andrea, (Museo Nazionale di Chieti), si sarebbero definiti “Púpúnís”. Lo storico Plutarco, inoltre, definì l’area del Piceno con il termine inedito di “Picenide”, a identificare definitivamente la maggior parte dei suoi abitanti come “Piceni” ossia un insieme di popoli accomunati dalla stessa koiné che, dopo aver occupato il medio Adriatico, diedero vita a numerosi centri organizzati su base tribale: centri che, che pur costituendo all’occorrenza compagini confederate, non giunsero mai a costituire un’unità culturale, tanto meno una vera capitale.

[6] Il matriarcato è una forma di organizzazione sociale nella quale il potere di una comunità è delegato ad una o più madri più anziane e, per estensione, alle donne di tale società. Sebbene le teorie legate al matriarcato nell’antichità non siano unanimemente condivise, si ritiene in media che esso si sia sviluppato ed esaurito durante il Neolitico (6000 – 1200 a.C circa).

[7] Cutilia (Cotilia). Si trattava del lago di Paterno (prov. di Rieti). La data dello sprofondamento che diede origine al lago è ignota e molto antica. Il lago risultava esistere già in epoca pre-romana, quando i Sabini gli attribuivano un grande valore religioso, tanto che lo avevano consacrato anche alla dea Vacuna e vi compievano sacrifici. Ancora prima, come tramandato da Macrobio, i Pelasgi strinsero la pace con gli Aborigeni nei pressi del lago, dedicando un sacello a Dis Pater ed un’ara a Saturno.

[8] Età orientalizzante: Con questa denominazione si indica il periodo dell’arte greca, che segue quello geometrico ed è caratterizzato da una fortissima influenza orientale, evidente nella moltitudine degli oggetti importati dall’Oriente e poi localmente imitati e nei motivi orientali che penetrano in ogni manifestazione dell’arte greca dalla toreutica alla ceramica.  Si parla di arte orientalizzante non solo per la Grecia continentale e per le isole, ma anche per le colonie greche d’Italia, per l’Etruria, la valle Padana, la zona atestina e picena.

[9] “MAMA KUPRí KORAM OPSÚT ANI{NI}S RAKINEL?ÍS? POMP?[ÚNE]Í”, il cui significato letterale è stato interpretato come “La mia bella immagine la fece (lo scultore) Aninis per il re Nevio Pompuledio”.

[10] Kardiophylax: corazza rigida di piccole dimensioni, di cuoio o di metallo, a protezione del busto e del cuore. Era di forma circolare o ovale. Era un’armatura tipica delle popolazioni italiche preromane dell’Italia centrale, diffusa in particolare tra Sanniti ed Umbri.

[11] Vi era anche l’eccezione costituita dall’alfabeto “nord piceno”, tramandato dalla stele di Novilara: una lingua piceno settentrionale, parlata dalle popolazioni stanziate nei dintorni dell’attuale città di Pesaro. A dispetto del nome, questa lingua non pare essere stata in relazione con il piceno diffuso nel sud della regione. La picena settentrionale, anzi, è stata considerata da molti studiosi come lingua non classificata come non indoeuropea. Oggi si affaccia l’ipotesi che si tratti di un dialetto greco arcaico.

[12] La cultura di Hallstatt è stata una cultura dell’Europa centrale dell’età del bronzo e degli inizi dell’età del ferro. Prende il nome dalla cittadina di Hallstatt, nei pressi di Salisburgo (Salzkammergut), nei dintorni del quale è stato rinvenuto il sito principale attribuito a tale cultura.