02/04/2018

DONATO BRAMANTE, POLIEDRICO GENIO VIAGGIATORE DEL RINASCIMENTO – di Marco Corrìas

By artedellamarca

Donato di Pascuccio, detto “Bramante”, genio marchigiano nato nel 1444 a Monte Asdrualdo (oggi Fermignano) presso Urbino, non fu “solo” il più grande architetto del suo tempo, in quella fase a cavallo tra ‘400 e ‘500 che portò le corti del Rinascimento italiano alla loro massima fioritura; egli fu anche un grande disegnatore e pittore, cortigiano, intellettuale, teorico e perfino poeta. Gli anni della formazione, piuttosto oscuri, vanno tracciati in primis attraverso un’attenta rilettura delle “Vite” del critico e artista Giorgio Vasari, che indicherebbe il primo maestro del Bramante in Fra’ Carnevale (Bartolomeo di Giovanni Corradini, Urbino 1420/25-1484), pittore studioso di prospettiva ed esecutore delle tavole Barberini, le celebri opere, ora negli USA, recanti storie della Vergine. Proprio in quegli anni Federico da

Bramante Uomini Arme e Filosofi di Casa Panigarola – Uomo con la Mazza


Montefeltro, principe – condottiero e intellettuale tra i maggiori del suo tempo, aveva trasformato la piccola Urbino in uno dei centri economici e culturali più evoluti d’Europa; un clima favorevole, che avrebbe certamente permesso al giovane Donato di instaurare contatti con artisti d’eccezione come Luca Signorelli, Melozzo da Forlì, Giusto di Gand e, soprattutto, Piero della Francesca, ospite della corte in diversi soggiorni. A Urbino, Bramante ebbe la fortuna di studiare le formulazioni pittoriche matematico – geometriche, quasi “metafisiche”, di Piero, all’ombra del prestigioso cantiere del Palazzo Ducale di Urbino, che architetti di spicco come il dalmata Luciano Laurana e il senese Francesco di Giorgio Martini andavano portando a termine sotto la supervisione dell’illuminato duca da Montefeltro. Educato nella Mantova dei aggiornatissimi Gonzaga dall’umanista Vittorino da Feltre, il signore di Urbino cercò di introdurre nel suo ambiente quella particolare atmosfera respirata nella ricca Corte padana, coinvolgendo nel suo progetto uno stuolo di intellettuali principalmente attratti da sperimentazioni matematiche e prospettiche, tali da esprimere un nuovo corso storico e culturale; una corte dove aveva trovato casa il matematico Luca Pacioli, autore di pubblicazioni scientifiche sulla prospettiva e sull’origine divina di una bellezza basata sulla proporzione e ispirata alle regole matematiche. L’obiettivo, coltivato da Federico da Montefeltro e dai suoi artisti migliori, divenne quello tipicamente umanistico, di ricreare, in base ai testi letterari dell’architetto fiorentino Leon Battista Alberti, uno spazio “in forma di palazzo”, che, per tipologie architettoniche e geometrie infallibili divenisse il nucleo di una possibile “Città Ideale”. Una città immaginaria e perfetta, che prima di affermarsi nei progetti urbanistici concreti di Urbino, Pienza e Ferrara, vide la luce in un “trittico” di celebri ma anonime tavole prospettiche prodotte a corte. Rispettivamente definite come tavola di Urbino (o La città ideale, conservata a Palazzo Ducale), tavola di Baltimora e tavola di Berlino, tutte attribuibili alla stessa mano, esse rappresentavano scorci di città ideali, campionario delle possibili variazioni di un vocabolario architettonico derivato dal mondo classico, che il duca avrebbe desiderato realizzare nella sua città: Urbino, un centro relativamente piccolo da ricostruire ex novo, secondo i dettami di un’urbanistica rinnovata e di un’arte figurativa come quella di Piero che, benché celebrativa, con le sue architetture immote e suoi silenziosi colloqui delineava uno scenario tutto sommato potenzialmente sfiorato dal rischio di restare utopia. Si trattava della fondazione di una “nuova Atene”, espressione intellettuale di un’aspirazione astratta eretta a partire dai principi di perfezione geometrica e armonica, fondamenti di un mondo perfetto. …Ma Donato Bramante, dalle Marche, come giunse a Milano? Attraverso un viaggio formativo che lo portò dapprima a visitare Ferrara, Padova, per l’appunto Mantova e Bergamo. Se escludiamo un certo numero di opere urbinati di incerta attribuzione, tra il 1474 e il 1477 l’ancora ignoto artista esordì proprio a Bergamo, in qualità di “pittore prospettico”[1] con un ciclo per la facciata del Palazzo del Podestà: l’idea di integrare personaggi entro scene architettoniche prospetticamente definite, soluzione incredibilmente innovativa, presto avrebbe aperto all’artista urbinate, allora già trentasettenne ma ignoto, le porte di Milano. Il fatidico ingresso nella capitale del Ducato Sforzesco, forse agevolato dal Montefeltro[1] per curare i lavori di un palazzo ricevuto in dono dagli alleati milanesi, avvenne tra il 1478 e il 1480.

[1] Si definisce pittore prospettico…   [2] I rapporti tra gli Sforza e i Montefeltro datavano…

In cosa differiva la Milano da Urbino, sogno utopico del centro Italia lasciato alle spalle? Essa era una grande, chiassosa e gaudente metropoli dell’alta pianura Padana, a stretto contatto con i mercati dell’Europa del nord connessi dai valichi alpini. Pur non essendo possibile dire se avesse davvero “misurato le fabbriche antiche”, come poeticamente scrisse Vasari, sicuramente l’urbinate si presentò a Milano aggiornato sugli studi di geometrie dell’Alberti, del Brunelleschi e di Piero della Francesca, nonché sulle prospettive illusorie di Andrea Mantegna e di Melozzo da Forlì. La presenza, in città, di notevoli vestigia paleocristiane e del cantiere del duomo, ancora privo del tiburio, proiettarono l’artista forestiero a diretto contatto con il mondo stimolante e variegato degli architetti e degli scultori lombardi: un ambito nuovo e diverso, ancora legato a una pratica progettuale tutta medievaleggiante, pronta al confronto con il nuovo linguaggio prospettico e illusionistico, teorico e progettuale, portato da un forestiero solitario e genialoide. Dietro la città monumentale, infatti, i più nobili monumenti lasciavano rapidamente spazio a un impianto urbanistico prettamente medievale, dove un’infinità di chiese, navigli e osterie, dalle insegne fantasiose e colorate come tarocchi, avevano avuto la meglio su un primo timido programma del fiorentino Filarete di ricreare anche qui una città ideale, a partire dall’avveniristico ospedale Maggiore circoscritto da un’affascinante, quanto improbabile, pianta stellare.  Milano necessitava davvero di accogliere tra i suoi artisti un vero innovatore dell’architettura italiana, acclamato come “il più grande inventore di nuove idee architettoniche che dai tempi antichi fosse apparso”[1].

[1] Da chi?????

La presenza dell’artista in città è immediatamente documentata dal successo ottenuto dalla famosa incisione Prevedari (1481): una sorta di “lasciapassare” con il quale Di Pascuccio desiderava presentarsi ai nuovi committenti, non solo come disegnatore aggiornato, ma anche in veste di esperto delle novità architettoniche di ascendenza classica maturate nell’ambito dell’umanesimo centro italiano. Il disegno originario, riprodotto attraverso un gran numero di copie, andate presto a ruba presso pittori e artigiani di tutto il ducato, che vi individuarono un nuovo modello prospettico di riferimento, traccia la visione di un grandioso interno all’antica, con membrature possenti: un capriccio architettonico, descritto come veduta “cum hedifitijs et figuris[1] da intendersi come organismo “vivente”. Nel 1486-7 Bramante continuò la sua attività di pittore prospettico di successo con il ciclo degli “Uomini, Arme e Filosofi” per una sala del palazzo di Gaspare Visconti (poi Panigarola): nasceva un nuovo spazio architettonico classicheggiante, prospetticamente ornato da nicchie semicircolari volte a ospitare svariati personaggi, in pose che richiamavano le statue dell’antichità. A parte poche altre eccezioni, come l’incredibile Cristo alla Colonna, olio e tempera su tavola (1490) e Argo, strabiliante personaggio mitologico, erroneamente quanto insistentemente attribuito al seguace Bramantino, simbolicamente affrescato a guardia della torre del tesoro del Castello Sforzesco, presto Bramante rivolse la sua attenzione all’architettura: la sua principale aspirazione, quella di sperimentare soluzioni innovative intorno

Bartolomeo di Giovanni Corradini detto Fra’ Carnevale Nascita della Vergine

al motivo della pianta centrale, trovò un interlocutore privilegiato nel duca Ludovico Sforza detto “il Moro”, che intendeva a sua volta aggiornare la sua corte seguendo l’esempio di Federico da Montefeltro, dei Medici, dei Gonzaga e dei pontefici romani.  A differenza del Montefeltro, simile sotto molti aspetti al padre del Moro, ossia quel Francesco Sforza, uomo della vecchia guardia e capitano di ventura, acclamato perfino da Machiavelli e fondatore di una dinastia potente, tale da poter potenzialmente disporre dei destini d’Italia, Ludovico Sforza dovette regnare per esprimere tutte le contraddizioni di un’era al tramonto: terzogenito salito al potere per mezzo dell’inganno, l’ultimo vero duca di Milano alternò la “grandeur” derivata da feste, banchetti e libertinaggio spudorato con la passione per la nuova arte portata da Bramante e poi da Leonardo da Vinci. L’incontro tra Donato e Leonardo, in continuo rovello progettuale, e altri artisti, come il già ricordato frate – matematico Luca Pacioli, autore di quel trattato chiamato De Divina Proportione, che influenzò cosi tanti artisti, contribuì a fare della corte del Moro, gravitante attorno al castello sforzesco, un ambito artistico e culturale di portata internazionale, aggiornato sulle maggiori novità provenienti dall’Italia centrale. La figura stessa del Pacioli, enigmaticamente ritratto in una famosa tela, oggi a Capodimonte, in compagnia di Guidobaldo da Montefeltro, figlio di Federico in presenza di un solido archimedeo noto come “rombicubottaedro”, oltre a rinviare alla coeva collaborazione con Leonardo nella redazione del De Divina Proportione, con la sua stessa presenza pare quasi segnare il presente e il futuro dello stesso Bramante.  Il toscano Bernardo Bellincioni a tal proposito, nel 1485 scrisse “venite, dico, ad Atene, oggi Milano!” Un desiderio, quello di richiamarsi alla grandezza di Atene, che accomunava così, due dei più raffinati ducati italiani, edificati intorno alla convinzione che nulla, come la pratica della cultura attiva potesse garantire forza e potenza, attuale e ventura.

Incisione Prevedari 1481 Castello Sforzesco

La prima concretizzazione scultoreo-architettonica dell’incisione Prevedari fu applicata al celebre Finto coro della chiesa di S. Maria presso San Satiro (1478-83): “mirabile artificio” nato dalla richiesta di Ludovico il Moro di rinnovare l’antica rotonda paleocristiana entro i limiti angusti di un’area addossata alla via retrostante, al punto da impedire la costruzione di un’abside proporzionata alla navata e al transetto. Sfruttando le potenzialità della prospettiva, Bramante sostituì allo spazio reale una cavità emisferica a finti cassettoni, rivestita da estrose decorazioni illusorie in stucco e nicchie scultoree a conchiglia: avvalendosi di una vera e propria camera ottica ante litteram che inscenava dal vivo il fondale della Pala di Brera di Piero della Francesca con un “finto coro”, Bramante realizzò l’impresa apparentemente impossibile di riportare alla terza dimensione un fondale piatto. La seconda grande impresa architettonica fu la Tribuna di Santa Maria delle Grazie, già importante centro di devozione ambrosiana. L’impresa ebbe inizio quando, a pochi metri dal refettorio dove in quegli stessi anni Leonardo, ispirando allievi e seguaci, dipingeva L’Ultima Cena, con gran dispendio di energia e denari il Moro nel 1492 ordinò l’abbattimento della cupola appena conclusa dal lombardo Guiniforte Solari per innestare nel corpo tardogotico superstite una nuova struttura a pianta concentrica: una tribuna, costituita da corpi geometrici a sostegno di una grande cupola emisferica a sedici spicchi, proiettata nello spazio circostante. Intorno a questo nucleo principale si articolano tre corpi absidali semicilindrici due dei quali, i laterali, si collegano direttamente alla cupola; il terzo invece, bilanciando visivamente la profondità delle due cavità laterali, prolunga l’area del coro. Il risultato ottenuto è uno spazio armonioso e dilatato, in cui le absidi si dispongono in ordine decrescente intorno al tiburio in una fusione di volumi, ottenuta all’interno mediante una decorazione tenue che alterna motivi ornamentali curvilinei e ruote raggiate, senza rinunciare all’esterno ai tipici elementi decorativi e policromi della tradizione lombarda: lesene, capitelli, ruote raggiate e medaglioni di imperatori in marmo su un fondale in mattoni rossastri. Il tema della pianta centrale, di derivazione antica, resterà una costante dell’architettura bramantesca, con ulteriori è più maturi e sviluppi nella successiva attività romana. Lungi dall’esaurirsi, l’attività di Bramante si sviluppa felicemente anche nei due chiostri del monastero di Sant’Ambrogio, dorico e ionico, (1497-8) dove l’artista elabora spazi retti da snelle colonne, in una mirabile purezza di linee che porta al superamento tecnico del più sfarzoso cortile di Palazzo Ducale a Urbino, e quello della Canonica, dalle quattro colonne a tronco d’albero a rami recisi, che alludono ai templi lignei delle origini, con citazioni dotte delle Metamorfosi di Ovidio. Numerosi furono anche i palazzi privati e gli edifici attribuiti al grande architetto sorti fuori città: per citare una sola invenzione tra le meno note, riserviamo un cenno allo spettacolare chiostro a doppio nartece di Abbiategrasso. Se Bramante avesse avuto un motto, quello sarebbe stato “preservare le tradizioni per protendersi verso il futuro”. Di conseguenza, il suo esordio e la maturazione costante nel campo dell’architettura influenzarono una moltitudine di “magistri inzigneri” locali, primo fra tutti l’acerrimo rivale Giovanni Antonio Amadeo, autore di alcuni monumenti di spicco del Rinascimento lombardo. Eppure, la novità bramantesca non fu immediatamente recepita. Arrivato in una città come Milano dove gli artisti locali, influenzati da mezzo secolo di scambi con la Firenze medicea e la raffinata cultura padovana, Bramante vi trovò un centro culturalmente già ben orientato sulla scia di predecessori come Filarete e Michelozzo in campo architettonico, Mantegna e Foppa in pittura. L’urbinate stesso, artista universalmente noto per la sua capacità di adattamento ad ogni contesto, preferì agire all’interno di una tradizione già codificata, in continuità con modelli preesistenti. Va anche aggiunto che, nonostante le numerose architetture a lui attribuite, il Bramante appartiene a quella schiera di grandi architetti del Rinascimento dei quali ci restano le opere

Bramante Cristo alla colonna Tempera su tavola 1490 Pinacoteca di Brera

ma non testimonianze progettuali per la loro realizzazione, come schizzi o modellini. La cosa è resa ancor più complessa dal fatto che i lavori di edificazione di grandi opere si protrassero per decenni, cosicché, difficilmente, l’autore del progetto poté seguirne personalmente lo svolgimento o presenziare fino alla loro effettiva conclusione. Di conseguenza, il nome del Bramante, forse anche in quanto avversato dall’Amadeo e dagli altri maestri locali, che pur traevano da lui ispirazione, paradossalmente appare con maggior frequenza, più che nei contratti dei lavori di fabbrica, nelle lettere di Lodovico il Moro e nelle altre missive ducali: indubbiamente, il raffinato marchigiano, al polveroso cantiere popolato da scultori, scalpellini e ingegneri gelosi del proprio mestiere, al contatto con la pietra preferì lo studio e la speculazione intellettuale nel protetto e raffinato circolo dei professionisti di corte. In assenza di altre notizie, il ruolo di Bramante, intellettuale d’élite, spicca soprattutto nella giocosa allusione che egli fa di se stesso e dell’amico Leonardo da Vinci, in un pannello del ciclo pittorico di Casa Panigarola, raffigurante Uomini, Arme e Filosofi e datato fine anni ’80. In questo pannello, i due artisti campeggiano in veste di filosofi dell’antichità: Eraclito/Leonardo e Democrito/Bramante, sono i protagonisti di un’accademia virtuale, dove il fiorentino piangente e l’urbinate ridente incarnerebbero, ciascuno reagendo a suo modo, gli opposti stati d’animo dei due artisti di fronte alle condizioni e alle sorti del genere umano. Secondo la tradizione, Donato di Pascuccio sarebbe altresì stato un gaudente autore di sonetti burleschi, molto apprezzati dall’ambiente cortese, abituato a lavorare di salaci metafore e ad essere a sua volta oggetto di scherno. Non essendo ancora pienamente compresa, dal punto di vista più rigorosamente architettonico, fin dai primi anni dalla sua apparizione, la lezione bramantesca venne impiegata dagli artisti locali come un ricco repertorio di motivi ornamentali da estrapolare a piacere, e dotare di una di patina di modernità spazi e composizioni riecheggianti motivi antichi. Nonostante l’apparente incomprensione, fu proprio così che l’innesto della cultura decorativa aggiornata di stampo classico del Bramante, in quegli stessi anni, portò i lombardi a sviluppare una fioritura delle arti decorative senza precedenti, con l’inaugurazione di un nuovo linguaggio: un linguaggio certamente desunto da fonti classiche, ma sdoganato come “lombardo”. Il decoro architettonico della Certosa di Pavia e della Cappella Colleoni di Bergamo, i cui cantieri furono affidati all’autoctono Amadeo, genero di quel Guiniforte Solari di cui Bramante aveva demolito la tribuna delle Grazie, videro presto affastellarsi ricche decorazioni composte da elementi classici quali candelabri, paraste, tralci d’edera e di vite, angioletti, ovuli, foglie d’acanto, vasi e fogliami, trabeazioni, fregi, ghirlande e  decorazioni vegetali:  un tripudio di elementi di indubbia ascendenza classica, dove però i fusti di colonna a grottesche e i capitelli davano vita a uno stile composito, esuberante e del tutto anti-classico. Gli ultimi studi del pupillo del duca riguardarono il tiburio del duomo di Milano. Intorno al 1487- 1488, in occasione dell’invito rivolto da Ludovico il Moro ai maggiori ingegneri e architetti per trovare una soluzione all’irrisolto problema, Bramante fece un modello, poi perduto, e scrisse una relazione tecnica e teorica, la cosiddetta “Bramanti Opinio super Domicilium seu Templum Magnum”. Si tratta del suo unico testo d’architettura pervenuto fino a noi, dove l’urbinate consigliava di terminare il Duomo con un tiburio a pianta quadrangolare in stile gotico, anziché imporvi una cupola rinascimentale, suggerendo ai colleghi di evitare il tiburio ottagonale affinché l’ordine dell’edificio non venisse meno. L’Amadeo seguì in parte le direttive: attorno al 1499-1500 sorse un tiburio gotico d’impensabile audacia…da tradizione lombarda non quadrangolare, bensì ottagonale! Perso terreno nell’ambito di alcune commissioni, in cui il Moro gli preferì l’Amadeo, ai primi segni di cedimento del Ducato Sforzesco, Bramante aveva già preparato le valigie per Roma. Anni di stravizi e di rischi ispirati da una politica funambolica, condotta sul filo del rasoio, portarono Ludovico il Moro a una rovinosa caduta, tale per cui, lo stesso Leonardo, scrisse di lui “il duca perse lo stato, la roba e la libertà e nessuna sua opera si finì per lui”, incluso il gigantesco monumento equestre per il padre Francesco Sforza che il da Vinci era prossimo a fondere, ma il cui modello in terracotta  fu distrutto per sempre dagli arcieri francesi. Viaggiatore eclettico e multiforme dalle inconsuete capacità d’adattamento, nel 1502 Bramante fu convocato da papa Giulio II nella Città Eterna per un’altra avventura, all’insegna di nuove sperimentazioni prospettiche e progetti di edifici in pianta centrale. In sua assenza, da quella data, e fino agli anni Venti del Cinquecento, nel ducato di Milano conteso tra Francia e Spagna, sarebbe fiorita una fervida attività di maestri impegnati in numerosi cantieri, che seppero comprendere con maggiore coerenza l’eredità del maestro, seppur riletta e interpretata in quel continuo scambio di idee tra maestranze di architetti, scultori, pittori e perfino artisti del legno: uno scambio che, se fin dalle origini aveva caratterizzato il modus operandi della Veneranda Fabbrica del duomo milanese in chiave nordica, ora andava diffondendo in tutto il ducato infinite reinterpretazioni di un gusto poi orgogliosamente definito col nome di “bramantismo”.

[1] Traduzione……

Santa Maria delle Grazie -Tribuna dall’interno (1490-1500)

Santa Maria delle Grazie – Tribuna dall’esterno (1490-1500)

         BIBLIOGRAFIA

           C.R. Frommel, L. Giordano, Bramante milanese e l’architettura del Rinascimento lombardo, Marsilio 2002
           Guagliumi, Donato Bramante : pittore e sommo architetto in Lombardia e a Roma, Silvia ed., 2014
           Patetta, Bramante e la sua cerchia a Milano e in Lombardia. Skira, 2001
          Patetta, Bramante architetto e pittore (1444-1514), Caracol, 2009
         VV, Bramante a Milano: le arti in Lombardia 1477-1499. Skira, 2015