02/04/2018

VILLA LA QUIETE… L’OBLIAR MI GIOVA – di Morena Oro

By artedellamarca

Chiunque abbia un animo incline al romanticismo più decadente, non può che essere soggiogato dal fascino di Villa La Quiete, dalla sua travagliata storia legata indiscutibilmente alle vicende personali del suo più illustre proprietario, il conte Lavinio De’ Medici Spada.

Solo dal 2015, il sito è tornato in possesso della città di Treia, dopo che per molti anni, dalla morte del conte Lavinio, la proprietà è stata oggetto di numerose controversie legali, e solo recentemente recuperata da uno stato di completo degrado.

Il comune di Treia si sta impegnando nel restaurare l’antico splendore della villa e restituire alla comunità un luogo magico e misterioso, impregnato di storia, cultura, profondamente legato alla dimensione del ricordo e al Genius loci, lo spirito dei luoghi, approfondito da Christian Norbert Schultz nel saggio del 1979: Genius Loci. Paesaggio Ambiente Architettura[1]. Nel suo celebre saggio, basilare per l’istituzione della fenomenologia dell’architettura, Schultz, architetto e teorico, richiamando un concetto sacro ai romani, che vedevano ogni luogo abitato da un’entità soprannaturale chiamata genius loci, indagava le relazioni tra architettura e ambiente e invitava a interpretare gli spazi nelle loro connotazioni multiple, affinché qualsiasi intervento sulla natura fosse rispettoso della sua identità e della sua essenza. Un edificio che si inserisce nell’ambiente, deve tener conto, secondo Schultz, della sua potenza trasformativa, dell’impatto – diremmo oggi-  sul territorio, e affinché questa interazione sia positiva e benefica, è necessario assumere uno sguardo d’insieme sul carattere del luogo, sulle vicende ad esso legate, sugli umori e le essenze che lo abitano. Un elemento architettonico può e deve modificare il paesaggio in rispondenza agli stati d’animo di chi lo ha abitato. Il genius loci finisce così per interpretare il carattere del luogo, l’insieme delle peculiarità che in esso si rapprendono, espresse attraverso opere materiali e immateriali, in relazione a situazioni e individui che lo plasmano attraverso un’azione storico-culturale che rende tale spazio riconoscibile dalla società ovvero luogo in cui gli uomini abitano, agiscono, vivono e muoiono, nell’insieme dei sentimenti e delle riflessioni che tutto ciò comporta.


Villa la Quiete, situata sulla sommità di una dolce altura a poca distanza dal centro storico della città di Treia, in contrada San Marco Vecchio, è una delle tante gemme architettoniche della regione disseminate fra le placide colline del maceratese e sicuramente una delle più imponenti ville monumentali dell’Ottocento neoclassico interamente progettata da Giuseppe Valadier e ritenuta il suo capolavoro artistico per l’arditezza nell’unire armoniosamente varie correnti architettoniche, la fantasia nel creare i diversi prospetti della villa ed anche della scuderia, l’ingegnosità nel trovare una soluzione naturale ed elegante al giardino”, con queste parole si esprime a tal proposito lo stesso Valadier. Stiamo parlando, per l’appunto, di un notevole complesso architettonico costituito da una serie di edifici all’interno di un parco storico che si estende per più di due ettari in un dedalo di sentieri e terrazzamenti affacciati direttamente sulla valle del fiume Potenza, con una veduta mozzafiato che si slarga dal mare Adriatico ai monti Sibillini.

Una storia quella di Villa la Quiete lunga mille anni che vede in origine, almeno sin dal 1036, il terreno dove ora si estende, occupato da una chiesa dedicata a San Savino, probabilmente longobarda. La chiesa venne successivamente inglobata in un convento cappuccino edificato a partire dall’anno 1578 e quindi smantellato dalle campagne napoleoniche che diedero il via alla soppressione degli ordini religiosi, nel 1810.

Nel 1828, la villa venne acquistata dal suo più noto proprietario, il conte Lavinio De’ Medici Spada che la scelse come sua dimora stanziale, nonostante le sue attività lo vedessero costretto a continui spostamenti fra Roma e Parigi. La ritenne il luogo ideale per potervi vivere in tutta serenità le sue innumerevoli passioni che finirono, nel corso del trentennio in cui lui la possedette, per determinarne la morfologia e lo sviluppo, plasmare il cosiddetto genius loci, per dirla nei termini di Schultz.

Alla residenza storica Villa La Quiete, meglio nota ai treiesi come “Villa Spada”, si accede percorrendo un breve viale alberato, fuori dall’enorme cancello neo gotico che rinserra le colossali mura entro le quali è racchiuso il grande parco e l’intero complesso. Varcato l’imponente cancello, una coppia di propilei, sormontati da sculture ornamentali, trattengono come in una maestosa cornice la Casa del Giardiniere e sembra voler delimitare quasi uno spazio a parte rispetto al resto della tenuta. Tale severo e importante ingresso rappresenta un elemento architettonico rilevante del complesso architettonico. Definisce infatti a colpo d’occhio quello che è l’atrio paesaggistico della Villa che si compone di tre viali convergenti verso una rotonda, oltre la quale è posta l’area di pertinenza della Casa di Villa, cioè il cuore di tutti gli spazi.  Dalla Casa di Villa, lungo gli snodi principali dei sentieri che segnano il bosco cappuccino come un labirinto, si incontrano un gazebo neogotico e un padiglione neo egizio con una serie di fontane e giardini, nonché riferimenti simbolici di quello che poteva essere un intimo linguaggio di comunicazione del conte con quei luoghi a lui tanto cari. Il conte Lavinio fu un personaggio di spicco del Risorgimento italiano, coinvolto in molte delle vicende politiche e storiche di primo piano. Studioso di lettere, poeta e scrittore, nonché uomo di scienza, appassionato di botanica, fu un mineralista di fama, come conferma un minerale a lui attestato: la spadaite.

Secondogenito del conte Girolamo Spada e di Giulia de’ Medici, nacque a Macerata nel 1801. Il padre, membro dell’“Accademia Georgica”[1] e autore di trattati sulla coltivazione dell’erba medica e dei bachi da seta, gli tramandò l’interesse per le scienze e la botanica; la madre, ascritta all’Accademia dei Catenati[2], gli infuse invece la passione per le lettere.

[1] L’accademia Georgica è un’accademia italiana di nobili intellettuali mossi da passione umanistica e poetica, dediti alla “incantatrice arte di Apollo”, fondata nel 1430 a Treia per volere di Bartolomeo Vignati, erudito scrittore apostolico. Questi nobili letterati decisero di chiamarsi Sollevati e come stemma scelsero un logo che rappresentava una leggiadra nuvoletta attratta dal sole, simbolo della soavità e sublimità dei loro componimenti poetici. L’Accademia ebbe la sua maggior fecondità nel periodo dell’Illuminismo e nel 1778, a seguito della grave crisi economica che investì tutta l’Europa, alcuni intellettuali innovatori appassionati di agronomia, decisero di trasformare l’Accademia Georgica in un centro per lo studio e la sperimentazione in Agricoltura, considerata una valida risposta alle problematiche legate alla crisi. L’Accademia Georgica ha tutt’oggi sede nella prestigiosa palazzina ottocentesca disegnata dall’architetto Giuseppe Valadier e fa corona alla Piazza principale della città.

[2]L’Accademia dei Catenati venne fondata nel 1574 a Macerata da Gerolamo Zoppio, professore di poetica, retorica e filosofia morale nell’Università di Macerata. Il suo obiettivo era quello di far rinascere la cultura nell’Italia centrale, promosse lo studio delle belle arti, della letteratura e del pensiero scientifico. Il nome “Catenati” deriva dall’immagine della “Cathena d’oro distesa dal cielo alla terra” descritta da Omero nel libro VIII dell’Iliade e venne raffigurata nel logo dell’Accademia come simbolo della congiunzione fra le cose umane e quelle celesti, la catena intesa anche come rappresentazione, attraverso gli anelli che la compongono, dei diversi gradi di elevazione culturale e morale dell’uomo. La pinacoteca di Palazzo Bonaccorsi a Macerata dedica oggi una delle sue più belle e visitate sale all’Accademia dei Catenati. Stupendi sono i cinquanta stemmi  accademici originari esposti che si riferiscono ai letterati e ai nobili che la fondarono, i quali vollero aggiungere curiosamente anche il loro soprannome, pratica a quei tempi, quella dei soprannomi, molto diffusa nel territorio marchigiano.

Come consuetudine prevedeva per i nobili privi dei diritti di primogenitura, a Roma, Lavinio si iscrisse all’Accademia Ecclesiastica, acquisendo in breve tempo il titolo di prelato, concessogli da papa Leone XII. Venne così destinato a Ravenna, come prolegato e, proprio a questa città, il conte consegna una delle sue opere più importanti che gli valse un’epigrafe e un busto in quanto fondatore dell’Accademia di Belle Arti, che collocò proprio a Ravenna, avviandola in soli quattro mesi con l’architettura di Ignazio Sarti Bolognese.

Lavinio De’ Medici Spada dimostrò sempre, tuttavia, scarso interesse per la vita ecclesiastica che pure lo compensò notevolmente con incarichi di prestigio; a testimonianza del conflitto che vigeva tra le sue idee personali e il suo ruolo professionale, fu sempre contrario alla pena di morte nella Roma papale incarnata dalla figura del carnefice marchigiano “Mastro Titta”, nonostante fosse il prefetto delle armi di Gregorio XVI e successivamente il presidente delle armi di Pio IX. Non prese mai gli ordini e nel 1848 abbandonò definitivamente la prelatura per sposarsi con la contessa Natalia Komar, nobile polacca, per ritirarsi definitivamente con lei nella sua villa treiese. In questo luogo che aveva egli stesso denominato “mia diletta Quiete”, si dedicò intensamente alla definizione di una dimensione ideale che fosse più di una dimora, ma divenisse esemplificazione di un sogno dove dare forma all’amore per Natalia e alle proprie aspirazioni.

La famiglia Komar aveva sempre vissuto fra Parigi e l’Italia e il suo membro più noto fu la sorella di Natalia, Delphine Komar, a cui Friedrich Chopin, che impartì diverse lezioni di piano alla contessa Spada, dedicò la sua opera Piano Concerto n.2 Op. 21, nonché la prima esecuzione di altre sue opere famose tra cui il Valzer in Do diesis n. 2 Op. 64. Negli anni in cui fu sposato con Natalia, Lavinio potenziò le sue coltivazioni negli spazi della serra e degli orti, implementò notevolmente gli alberi in tutto il parco che divenne un vero e proprio giardino botanico dove erano presenti oltre diecimila specie floreali e arboree diverse, fra le quali si distinguevano Fuchsie, Begonie e Camelie appartenenti a famiglie mai avute in Italia. Nel 1854 il giardiniere di allora, Raffaele Amicucci, catalogò la grandissima varietà botanica della Villa, che comprendeva specie provenienti dall’America, dall’Asia e dall’india, in una pubblicazione intitolata Catalogo delle piante che si coltivano nel giardino del Conte de’ medici Spada a Villa Quiete presso Treia[1]Negli spazi interni della Villa, il conte collezionò e catalogò diverse raccolte che, messe insieme nell’arco di una vita, comprendevano quelle di interesse scientifico come la mineralogia (donata poi all’Università la Sapienza di Roma) e quelle di oggetti d’arte, costituite da vasi provenienti dal Giappone, lavori d’intaglio, antiche stoviglie e quadri di valenti maestri, nonché marmi e molto altro. Nel 1859, una tragedia improvvisa devastò la quiete di quel luogo che tanto appassionatamente si era ritagliato, con il sopraggiungere della morte dell’amatissima moglie Natalia. La perdita inaccettata intaccò profondamente il carattere del conte che impazzì di dolore e chiuse i rapporti  con tutti, facendo erigere intorno alla villa poderosissime mura che lo separassero dal mondo intero.

Stravolse il senso di quegli spazi vitali che iniziò a vivere come riverbero straziante della mancanza della moglie. La Villa e il parco divennero così un mausoleo alla sua memoria, luoghi deputati alla celebrazione del suo ricordo, poiché ogni scorcio, ogni angolo dei panorami sconfinati che circondavano quella collina parlavano di lei e amplificavano il dolore per quel distacco impensabile. Il conte espresse la sua tragedia e il suo tormento agendo sull’architettura del complesso, sulle sommità degli imponenti propilei all’ingresso dove vennero istallate due enormi colonne spezzate, simboleggianti la morte e la perdita irrimediabile insieme a una grande urna cineraria in muratura sagomata. Fece realizzare, sempre all’interno della villa, anche un piccolo ma pregevole Pantheon per la  commemorazione di Natalia: un giro di otto colonne con capitelli ionici a sostegno di una cupola a sesto ribassato e decorata con motivi a lacunari decrescenti. Dicono le cronache, che il conte vi sistemò una statua del Tenerani, riproduzione marmorea della soave bellezza della donna amata, ma oggi della statua non ve ne è più traccia. Lavinio volle, sempre per mano del Tenerani, che il viso di Natalia fosse eternato anche sul monumento sepolcrale nella chiesa della Minerva a Roma. Altri oggetti ed effetti personali appartenuti alla moglie furono gelosamente conservati in una stanza all’interno della villa. Prima della morte della consorte, il Conte Lavinio De Medici Spada fu uno scrittore di versi prolifico e instancabile, poeta lodato da Vincenzo Monti, amico di Leopardi, ma l’incolmabile vuoto lasciato dalla moglie gli rese impossibile sopportare il fardello della propria produzione poetica,  che raccontava di una felicità per sempre perduta, tanto da bruciare in un rogo tutta la sua produzione a lei dedicata. Fu Alcibade Moretti a salvare dalle fiamme alcuni stralci dei poemi che pubblicò nel 1881 nel libro Versi inediti di Lavinio de’ Medici Spada, preceduto da un’esaustiva biografia sempre scritta di suo pugno.  Il conte morì nel 1864 e la villa fu venduta dagli eredi. Con lui si addormentò anche lo spirito di quei luoghi che divennero spazi di abbandono e degrado, conseguenza di oltre 150 anni di usi impropri e incurie.

Il 6 giugno 1940, quando erano divenuti proprietari i conti Vannutelli, fu aperto nella villa un campo di internamento femminile. Fra il 1943 e il 1944, prima della liberazione dai nazifascisti, fu luogo di prigionia per gli ascari della PAI (Polizia Africa Italiana). Dal 1960 al 1980 Villa La Quiete venne utilizzata come Scuola dell’Infanzia, poi lasciata in stato di abbandono e alla mercé di erbacce e rovi che ne hanno ricoperto l’area fino al 2015, quando la città di Treia ne è tornata in possesso. Con il decreto “Art Bonus”, oggi, il Comune della città può avvalersi di uno strumento concreto per ridare vita a questo grandioso patrimonio culturale e tassello storico di notevole interesse per la nostra regione, attraverso le donazioni effettuate dai privati cittadini, che possono contare su una detrazione fiscale del 65% sull’importo donato. Sull’affresco della volta a vela che copre la parte terminale sud della loggia, si leggono questi versi scritti da Lavinio, rivolti a un luogo percepito come complemento ed estensione di chi lo abita, il cui spirito è destinato a permearlo nei tempi:

L’obliar mi giova  beata solitudo  lasci dir le genti  sola beatitudo.

E il Genius loci, imperterrito, continui a dir a tutte le genti che sola beatitudo fu la Bellezza

Bibliografia di riferimento:

-Christian Norberg-Schulz e Anna Maria Norberg-Schulz, Genius Loci. Paesaggio, ambiente, architettura, Documenti di architettura, Milano, Mondadori  Electa, 1997

– Vittorio Lingiardi, Mindscapes. Psiche nel paesaggio, Cortina Raffaello editore, 2017

– Gaston Bachelard, La poetica dello spazio, Edizioni Dedalo, 2006

 

[1]Catalogo generale delle piante che si coltivano nel giardino del Conte De Medici Spada a Villa Quiete presso Treia nelle Marche, Tipografia Tibertina, Roma De Medici Spada L., 1858

[1] Genius Loci. Paesaggio Ambiente Architettura di Christian Norberg Schultz, Mondadori Electa, 1979