29/09/2023

Lettere scolpite nella voce. Opere scelte di Pierluigi Savini, pittore contemporaneo

By artedellamarca

di Loredana Finicelli

Si è conclusa da poco, a Fermo, presso i locali sottostanti di Palazzo dei Priori, la mostra di Pierluigi Savini, pittore fermano di lungo corso, formatosi all’Accademia di Belle Arti di Firenze tra gli anni sessanta e settanta. L’esposizione ha fornito l’occasione per focalizzare l’attenzione su un pittore contemporaneo del nostro territorio, uno tra i tanti talenti artistici che animano le Marche, a cui andrebbe dedicata maggiore attenzione e una politica di promozione più accurata.

La mostra ha un titolo curioso, Lettere scolpite nella voce, che però ha il merito di introdurre l’osservatore al cuore della ricerca artistica condotta da Savini in questa circostanza, ovvero l’esplorazione dell’alfabeto ebraico a partire proprio dai concetti e dai valori incarnati in ogni singola lettera. La mostra cade infatti nell’ambito di una iniziativa molto interessante che è la riscoperta dell’antico ghetto ebraico di Fermo, unitamente a una figura di grande rilievo come quella di Immanuel Romano o Manoello fermano, letterato di levatura che nato a Roma morì a Fermo nella prima metà del Trecento. Nel corso di questo evento articolato e a più voci, Immanuel Romano o Immanuel giudeo è stato oggetto di una giornata di studi che ha visto la presenza del noto studioso e saggista Vittorio Robbiati Bendaud, coordinatore del Tribunale Rabbinico dell’Italia centro-Nord: lo scrittore fu, infatti, tra i massimi esponenti della letteratura ebraica del Medioevo e, proprio a Fermo, scrisse il suo capolavoro, il Mahbaroth. Fu in contatto con i grandi letterati del tempo, Dante Alighieri su tutti, che conobbe probabilmente alla corte veronese di Cangrande della Scala e a cui dedicò un sonetto appresa la notizia della sua morte. Un cortometraggio di Luca Incorvaia, Il mio nome è Immanuel, ci trasporta in un dialogo raffinatissimo dalle atmosfere preraffaellite, tra la Fermo di ieri, dove un ispirato Manoello, interpretato da Catio Postacchini, compone i suoi versi tra le bellezze cittadine e quella di oggi ammirata da una espressiva Micol Lanzidei. A testimonianza di come il nostro patrimonio sia un insieme integrato di saperi e di bellezza e di come le nostre città siano niente altro che scrigni preziosissimi, dove passato e futuro si saldano in un unico piano di significati, rimandi e possibilità, la mostra di Pierluigi Savini ha costituito una tra le tante chiavi di accesso per entrare in contatto con la cultura ebraica e provare a decodificarla almeno in modalità empirica e intuitiva, propria alle arti visive.

Savini è un artista colto, che con la sua pittura ha rielaborato nodi nevralgici della nostra storia, quelle fratture che hanno stabilito la nostra identità, il nostro profilo culturale. Ha studiato e maneggiato l’alchimia, proponendo una serie di lavori sul tema richiamando alla memoria un momento fondativo del nostro passato, dove una ricerca scientifica ancora inesistente e non provvista né di metodo né di verifica, procedeva per tentativi oscuri, nei quali l’esoterismo si colorava di magia e insieme cercavano la via per la trasmutazione dei metalli in oro. Un processo allegorico di perfezionamento e di liberazione dalla materia alla ricerca del vero sé, coincidente con la franchezza della luce, dunque con l’oro. Una figura, quella dell’alchimista, che non è distantissima da Savini, perché entrambi animati dalla tensione verso la sperimentazione, entrambi capaci di camminare sul filo teso delle possibilità future, vibranti nell’ambizione, volti a esplorare percorsi inconsueti – non solo nell’arte ma anche nella vita – quando tutti, in certe circostanze, ci si deve inventare e dunque ci si sente un po’ artisti e un po’ maghi, quando appunto non addirittura alchimisti per cambiare status e prospettiva a ciò che ci circonda e magari vederlo dorato.

Foto Savini

Martin Lutero è stato tra le figure che hanno destato l’attenzione di Savini, proprio per rimarcare l’interesse verso gli aspetti divisivi della cultura, con l’approccio di chi ritiene l’alterità una ricchezza, la crisi delle certezza una occasione di crescita, la sedizione un viatico per la ricchezza: Lutero non ha solo meritato l’interesse culturale e scientifico di Savini, ma ne ha determinato un approfondimento, uno svisceramento dei problemi che sono stati tradotti in impulso creativo e poi in pittura, infine in immagine empirica da condividere con il pubblico. Savini ci ha ricordato che le strade della conoscenza sono molteplici e l’arte pensata, eseguita e fruita, in una di queste triplici azioni, è un metodo conoscitivo empirico ed impattante per quanto fallibile. La cultura ebraica non poteva mancare alla vis esplorativa di Savini perché è tassello troppo importante della nostra esistenza e colonna della nostra identità odierna; e, come ci ha insegnato il maestro, è carica di dissidio e disgregazione per non essere oggetto di interrogazione da parte di chi è sensibile ai corti circuiti della storia e delle mentalità. Savini ha affrontato il tema dell’ebraismo in varie occasioni, ma sempre a partire dalle lettere, ovvero da quell’alfabeto che per volontà del creatore nel momento in cui nomina genera, perché nella pronuncia risiede la creazione. A pensarci bene, è questo un assunto fondamentale di ogni linguaggio che prende atto dell’esistenza dei fenomeni nel momento in cui li denomina e, denominandoli li identifica, dandogli sostanza e forma. Savini su questo principio dottrinario proprio dell’ebraismo, ma in realtà comune al linguaggio, ha costruito il suo metodo di lavoro e dunque la poetica che sostiene questa ricerca: ogni lettera è un costrutto con cui entrare in relazione, una entità con cui dialogare empaticamente, fino a coglierla nei suoi aspetti cromatici, formali, materici e offrirla al pubblico per una nuova e condivisa meditazione collettiva. Un modo di approccio all’alfabeto ebraico intuitivo e allo stesso tempo capace di risuonare in maniera sinfonica agli sguardi e alla percezione comune e soggettiva.

Lettere scolpite nella voce è una mostra che propone le opere degli anni settanta del Novecento, con un linguaggio che matura nella vicinanza agli indirizzi internazionali dell’espressionismo astratto e dell’informale, un momento in cui la tessitura dei segni, la struttura della materia sublimate nel gesto creativo diventano straordinarie possibilità artistiche, che aprono la strada a una sperimentazione radicale e totalizzante. Segno, materia e gesto, i cardini espressivi di quella stagione, sono stati gli strumenti creativi con cui Savini ha inteso affrontare la complessità di quella cultura in cui le lettere sono premessa prima e sostanza universale della creazione divina del mondo, lettere esplorate nei profili, nella densità dei suoni, nelle profondità del loro silenzio, nella corposità intrinseca e spirituale, nella loro capacità di tessere trame vocali e visive e di articolarsi con le altre, con il supporto, con lo spazio, con l’infinito. Savini, con i suoi gesti pittorici meditati a lungo eppure assoluti e privi di ripensamenti, ha tentato di donarci l’essenza di quel linguaggio e dunque di quel sapere, in tele dove segno e materia si sovrappongono e si contaminano in maniera coerente, si addensano e si distendono in cromie circoscritte e squillanti, risuonano l’una sull’altra fino a quando il fragore espressivo riconfigura evocativamente la tensione spirituale, la verità divina che la lettera porta trascritta in sé.

Lettere scolpite nella voce 1

Un sistema espressivo, quello di Savini, che sfrutta la disintegrazione del dato formale per poter esprimere significati inediti e sprazzi di verità trascendenti che sono passi fondamentali e troppo spesso ignorati del nostro straordinario e complesso percorso evolutivo, che vede proprio nel Mediterraneo una sommatoria di culture e contaminazioni. E quello messo in scena è ancora un processo trasmutativo, un percorso di alleggerimento dalle scorie della materia e alla ricerca di una interiorità profondissima, che tentativo dopo tentativo, raggiunge accidentalmente ma in maniera compiuta la pienezza della luce. Il percorso della mostra è infatti racchiuso nel processo che dal caos materico della nigredo raggiunge allegoricamente l’albedo in cui tutto si fa luce e dunque si compie. Che siano le scritture ebraiche o i processi alchemici, la pittura di Savini è tensione costante alla verità, tanto universale quanto soggettiva.

A tanti anni di distanza, l’opera di Savini mantiene immutata la sua coerenza espressiva e “tiene” all’impatto del tempo divenendo una significativa testimonianza di quello spaccato storico e culturale, in cui l’Italia ha innegabilmente dato il suo contributo.

Lettere scolpite nella voce 2

La mostra nasce dalla competenza, dalla passione, dall’amicizia di Eleonora Paniconi, Piersante Iacopini e Matteo Silenzi. Occupandosi della gestione dei lavori del Maestro Pierluigi Savini, di cui conoscono le pieghe della produzione, hanno curato l’aspetto scientifico e culturale di questa mostra, da me incoraggiata e presentata, rendendo un magnifico servizio alla città di Fermo, alla cultura del nostro territorio e a tutti.

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